Bernini e Borromini

Bernini

Autoritratto di Lorenzo Bernini a 25 anni

Giovan Lorenzo Bernini, detto Gian Lorenzo Bernini, nacque a Napoli il 7 dicembre del 1598, figlio di Pietro Bernini, un pittore e scultore toscano originario di Sesto Fiorentino ( in provincia di Firenze), e di Angelica Galante, una popolana napoletana. Il padre si era stabilito nella città partenopea per lavorare nel cantiere della Certosa di San Martino. Nel 1605 Pietro si trasferì con la moglie e il piccolo Gian Lorenzo, di soli sei anni circa, a Roma dove ottenne la protezione del cardinale Scipione Caffarelli Borghese ed ebbe l’occasione di mostrare il precoce talento del figlio. Gian Lorenzo si forma alla bottega del padre e con lui realizza i suoi primi lavori. Le opere del Bernini definiscono la sua personalità, forte degli insegnamenti del padre ma nello stesso tempo innovatore dello spirito di tutta una generazione. Lavora per tutta la sua carriera artistica a Roma sotto i pontificati di Urbano VIII Barberini, Innocenzo X, Alessandro VII Chigi, Clemente IX Rospigli e Innocenzo XI Odescalchi.In questo contesto conobbe le opere degli artisti a lui precedenti. Inoltre fu coetaneo di Borromini con il quale avrà una rivalità molto accesa per le commissioni più importanti a Roma. Dopo una lunghissima vita dedicata all’arte, dopo aver imposto il suo stile a tutta un’epoca, Gian Lorenzo Bernini muore a Roma il 28 novembre 1680, all’età di 82 anni.

Il Bernini raggiunge la sua prima maturità con un gruppo di statue realizzate per il cardinale Scipione Borghese, a tema biblico o mitico: Enea e Anchise, il ratto di Proserpina, David, Apollo e Dafne. Di particolare importanza sono soprattutto le ultime due.

David

Il Rinascimento (Donatello, Verrocchio, Michelangelo) ha visto in David l’uomo-eroe, dominatore delle forze avverse con la superiorità della ragione e lo ha rappresentato perciò meditativo, immobile, seranamente cosciente della propria virtù. Bernini lo coglie invece nell’attimo in cui, teso nello sforzo, sta per scagliare il sasso con la fionda; ciò obbliga a ruotare sulle gambe divaricate e acurvarsi sul busto, deviando dall’asse verticale, mentre vogle la testa, gli occhi intenti nel prendere la mira, la fronte corrugata per la concentrazione. L’esasperata rotazione del corpo serve ad accumulare la massima potenza; le labbra serrate evidenziano da un lato lo sforzo di raccogliere le energie per l’azione imminente, dall’altro la concentrazione del giovane sul bersaglio da colpire. A dispetto della fissità delle statue rinascimentali subentra una forte carica emotiva, capace di creare coinvolgimento nello spettatore, a tal punto preso dal gesto da poter “sentire” tutta la tensione di David e immaginare l’inquietudine del suo antagonista Golia nel trovarsi di fronte un avversario tanto determinato.

Apollo e Dafne

Eseguito tra il 1622 e il 1625 e si trova nella Galleria Borghese a Roma.

Il soggetto del gruppo è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. Nell’episodio narrato, Apollo si vanta di saper usare come nessun altro l’arco e le frecce, meritandosi così la punizione di Cupido, che lo colpisce con uno dei suoi dardi facendolo innamorare della bella ninfa Dafne, la quale però aveva consacrato la sua vita a Artemide e alla caccia. L’amore di Apollo è irrefrenabile, perciò Dafne chiede aiuto al padre Penéo, dio dei boschi, il quale per impedire ai due di congiungersi la trasforma in un albero di alloro, che da quel momento diventerà sacro per Apollo. Questo è in breve l’episodio che Bernini rappresenta fedelmente proprio nel momento della trasformazione della ninfa in pianta.

La scena è spettacolare e terribile al tempo stesso. Rincorsa da Apollo, Dafne si protende in avanti, la sua metamorfosi si compie ed è visibile nelle mani che prendono la forma di rami e di foglie, mentre i capelli e le gambe si trasformano in tronco e i piedi in radici; Apollo la guarda incredulo ma rimane impassibile; lo sguardo della Ninfa è invece al contempo sbigottito e pieno di terrore. Dafne  si dibatte, grida, Apollo schiude la bocca nell’ansito della corsa; ma il dramma, la violenza scompaiono nell’armonico disporsi delle due figure secondo una linea obliqua che, partendo dalla gamba sinistra del Dio, ancora sollevata, culmina nella mano destra della ninfa già trasformata in fronda.

 

L’opera è esemplare della nuova mentalità seicentesca nell’interpretazione del tema: la metamorfosi improvvisa di Dafne da donna in albero di alloro, lo scioglimento del dramma, suscitando la meraviglia dello spettatore, quella meraviglia che, come sostiene il poeta Giambattista Marino,  è lo scopo dell’arte:

«E’ DEL POETA IL FIN, LA MERAVIGLIA»

Baldacchino di San Pietro

Bernini ha appena 26 anni quando il nuovo papa Urbino VIII gli commissiona il Baldacchino di San Pietro, un monumentale ciborio, con funzione di fulcro simbolico dell’edificio, ideale coronamento della tomba del martire conservata nella cripta sottostante. Il compito era molto difficile. Si trattava di mettersi in relazione con la cupola di Michelangelo, proporzionandosi con essa senza tradirne il significato e, al tempo stesso, senza rinunciare alla propria personalità. Da un lato la concezione rinascimentale michelangiolesca con lo spazio accentrato unitariamente verso il vertice della grande cupola, dall’altro lato la concezione barocca berniniana con il decentramento delle forze.

Bernini inventa una struttura ariosa che rinnova la tipologia del tradizionale ciborio a tempietto. Egli erige un baldacchino, un elemento apparentemente mobile, posto al centro della crociera, in corrispondenza dell’altare maggiore. Le quattro colonne realizzate in bronzo asportato dal portico del Pantheon, lumeggiato d’oro sono tortili. Esse sono decorate con simboli della famiglia Barberini (le api, il sole, le foglie di lauro).  Le colonne si imprimono allo spazio un moto rotatorio che si propaga verso i quattro pilastroni, i quali sostengono la cupola, scavati in nicchie. In esse l’architetto collocò statue colossali, una delle quali scolpì lui stesso.

Il coronamento del Baldacchino è di Francesco Borromini, il cui progetto è preferito a quello di Bernini, che aveva immaginato una struttura ad archi incrociati sormontata da una statua di Cristo. Borromini invece progetta una flessuosa struttura composta da volute a dorso di delfino che culminano in una piattaforma su cui le api barberiniane fungono da sostegno alla sfera che regge la croce dorata.

 

 

Cappella Cornaro e l’Estasi di santa Teresa d’Avilla

La Cappella Cornaro fu eseguita fra il 1647 e il 1652 nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria. Questo monumento intreccia il significato teologico della dedicazione a santa Teresa, con la celebrazione della potente famiglia Cornaro. Bernini concepì la cappella come un piccolo teatro, dove viene rappresentata l’estasi di santa Teresa ed ai lati i membri della famiglia Cornaro, i quali assistono alla scena entro logge in prospettiva, affacciati e sporgenti da parapetti. Gli sguardi di questi sono rivolti verso il centro della cappella, in cui è presente un’architettura straordinariamente dinamica e vivacemente policroma, culminante nell’elegante frontone convesso dal profilo spezzato.

Le figure dell’angelo e di santa Teresa adagiata su una nube di pietra danno l’impressione di galleggiare nel vuoto. Bernini dimostra tutta la sua maestria di scultore, capace di lavorare il marmo come fosse cera, con estrema attenzione nei particolari.

Molti rivolgono a quest’opera due critiche: la spettacolarità teatrale al limite dell’esteriorità e una specie di ambiguità nell’abbandono della Santa in un’estasi d’amore più terreno che divino. Per quanto riguarda la prima critica, nessun dubbio che questo sia un teatro. Bernini ne è cosciente e non solo non lo nasconde, ma lo denuncia con tale chiarezza che pone il gruppo in una rientranza sopraelevata come un palcoscenico.  In questo periodo tutta la realtà è vista come una rappresentazione. Uno dei più grandi drammaturghi spagnoli, coetaneo di Bernini, Calderòn de la Barca, afferma che:

«In questa vita tutto è verità e tutto è menzogna, la vita è un’illusione, una finzione, un’ombra, tutta la vita è sogno»

Il significato di quest’opera quindi è che finzione e realtà, realtà e finzione si scambiano continuamente in un gioco intellettuale del quale anche lo spettatore è chiamato a far parte. In questa teatralità è già la risposta alla seconda critica. Come può l’attore rendere visibile in modo chiaro, davanti agli occhi di tutti, ciò che è invisibile, l’amore divino, se non con atteggiamenti del suo corpo, che è reale, è fisico, e che dunque non può non richiamare all’amore carnale? Del resto questa mescolanza di spiritualità e di sensualità è tipica del misticismo di Santa Teresa. Bernini doveva conoscere gli scritti di ella, soprattutto un passo di una lettera dopo una delle sue estasi:

«L’anima mia si riempiva di una gran luce, mentre un angelo sorridente mi feriva con pungente stale d’amore»

Proprio così lo scultore l’ha rappresentata: caduta in deliquio, le vesti scomposte, le palpebre abbassate, la bocca dischiusa, tutta palpitante d’amore, mentre un angelo, con il sorriso sulle labbra, sta per scagliare una freccia in direzione del suo cuore. Il gruppo è illuminato da una finestra ovale posta nella cupoletta della nicchia, cosicché i panneggi della Santa e l’angelo ne risultano fortemente chiaroscurati e le parti nude dolcemente accarezzate. I raggi dorati, disposti a semicerchio, conducono la luce verso il basso.

 

 

Palazzo Montecitorio

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Palazzo Montecitorio

Palazzo Montecitorio è un espressione dall’architettura di Bernini  sotto il pontificato di Alessandro VII sotto il quale si ebbe una ripresa del fenomeno del mecenatismo. Progettato nel 1650 per la famiglia Pamphili venne portato a compimeno solo nel 1697 da Carlo Fontana. Bernini si lascia alle spalle i principi derivati dai trattati di Vitruvio come quello di omogeneità e regolarità compiendo dei tentativi originali per il progetto di questo palazzo. Infatti la facciata si presenta con una forma convessa e divisa  5 parti da pilastri che diventano sempre più sporgenti verso il centro della facciata. La dilatazione delle ali laterali produce un ampiamento prospettico che sarà un elemento tipico dell’architettura di Bernini.

Piazza San Pietro

Fin dal 1656 Bernini ha iniziato a studiare la sistemazione di Piazza San Pietro, a Roma, un lavoro di fondamentale importanza, che ha comportato problemi enormi, ma che è stato anche sostenuto dalla piena collaborazione di papa Alessandro VII Chigi, un committente colto e attento.
Bernini in questo lavoro non era libero di seguire il suo estro e la sua fantasia, poichè la costruzione della piazza era condizionata da una serie di elementi e ogni cosa andava ponderata e messa in relazione con ogni altro problema.
Andava deciso l’abbattimento di edifici già esistenti. Inoltre andava risolto un problema estetico: la facciata della basilica, costruita da Carlo Maderno, risultava troppo larga rispetto all’altezza. Si doveva anche garantire la visibilità della cupola di Michelangelo, oltre che quella dei Palazzi apostolici e della Loggia delle Benedizioni. L’artista doveva tenere conto di precise esigenze liturgiche alle quali la piazza doveva essere funzionale, l’invaso della piazza doveva contenere un numero enorme di fedeli e garantire facilità di afflusso e deflusso di masse di persone, permettere lo svolgersi di funzioni e processioni, garantire acustica e visibilità adeguate. Nella progettazione era necessario seguire un preciso simbolismo religioso, al quale il papa era particolarmente attento.
Bernini cominciò nell’estate del 1656, disegnando una piazza a forma di trapezio, delimitata da palazzi con portici dagli archi a tutto sesto. Ma il risultato non convinse l’artista che  giudicò i palazzi troppo alti e l’effetto complessivo un po’ monotono e non abbastanza spettacolare. Serviva qualcosa che creasse uno stacco con i palazzi apostolici, che armonizzasse l’insieme, che mantenesse altezze più contenute per lasciar vedere bene la Loggia delle benedizioni e offrisse maggiore ampiezza spaziale. Nel 1657 aveva già impostato un nuovo progetto, definendo una piazza di forma ovale e sostituendo i palazzi porticati con un colonnato a trabeazione. Bernini cercò anche di adattare le misure riducendo al minimo l’abbattimento di strutture preesistenti, anche se questo avrebbe fatto sì che gli spazi ottenuti non fossero perfettamente regolari.
Bernini inserì la cosiddetta “piazza retta”, di forma trapezoidale davanti alla chiesa, sviluppò in avanti due bracci porticati rettilinei leggermente divergenti verso la facciata, in modo da collegare la chiesa con la piazza ovale. La sua grande esperienza sui rapporti ottici e dimensionali venne applicata anche in questo caso per correggere i numerosi “difetti” che il monumentale complesso di spazi ed edifici presentava.

La leggera inclinazione dei due portici rettilinei nella piazza trapezoidale permette una visione più equilibrata della facciata, e ne restringe visivamente la larghezza eccessiva. Le irregolarità nelle dimensioni, nella simmetria e tutti gli errori di allineamento tra i diversi elementi, facciata, obelisco, piazze, vennero risolti mediante calcoli geometrici e prospettive illusive, fino a renderli impercettibili.

L’armonia dell’insieme è basato soprattutto su un voluto contrasto.
La chiara struttura geometrica impostata sull’ellisse, è in netta contapposizione allo sviluppo orizzontale della facciata e dei palazzi vaticani. Le massicce colonne della piazza contrastano con quelle corinzie, più esili e alte, della facciata.
Ma un altro accorgimento ingegnoso è rappresentato dalla disposizione delle colonne: l’allineamento delle colonne  degli emicicli è calcolato sui raggi dell’ellisse, il cui centro è indicato con una piastrella rotonda posta sul pavimento della piazza.
Questa soluzione offre allo spettatore un particolare effetto dinamico visivo: chi attraversa la piazza vede le colonne aggregarsi e staccarsi passando da spazi vuoti a pieni, con un movimento continuo di aperture e chiusure. Nel 1667 Bernini aveva pensato di chiudere la piazza con un altro settore di colonnato, il cosiddetto “terzo braccio” che continuasse la curva dei due emicicli dalla parte opposta alla Basilica.

Nel complesso, il risulatato è quell’immagine di solennità ed eleganza grandiosa e spettacolare che rende questa piazza unica al mondo, ma si coglie anche il simbolismo: la forma ellittica indica l’universo, il portico che si sviluppa dalla basilica rinvia alle braccia della Chiesa che raccolgono l’intera umanità.
Le statue dei santi offrono la mediazione tra la massa del portico e il vuoto del cielo, in riferimento alla mediazione spirituale tra il mondo e Dio.

Dal punto di vista stilistico, Piazza San Pietro oltre che monumento simbolo del barocco italiano è anche una delle architetture più classiche realizzate dopo al Rinascimento, ma è estremamente originale l’interpretazione che il Bernini offre della classicità. La scelta della colonna libera con trabeazione offre invece un’immagine decisamente scultorea, di rotondità e pienezza spaziale. La colonna con la sua forma cilindrica e la stessa disposizione radiale per tutto il colonnato, rinviano all’idea di infinito, suggerito anche dalle dimensioni amplificate e dalla stessa forma ellittica della piazza.

Le scelte del Bernini per tutto il suo lavoro furono aspramente criticate ai suoi tempi, ma il suo colonnato diventerà un punto di riferimento fondamentale per l’architettura moderna, le cui conseguenze troveranno applicazione dall’Italia a tutta l’Europa, fino alla Russia per più di due secoli dopo.

Scala Regia

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Nella Scala Regia del Vaticano, Bernini riesce a dare monumentalità alla struttura ossia riesce a infonderle il significato di ascensione pur avendo a disposizione uno spazio angusto. Utilzza il porcedimento inverso a quello impiegato per la piazza di San Pietro perchè il problema che si presentava era quello di ampliare la distanza e non diminuirla come nell’altro progetto. In entrambi i casi però la prospetti va ha giocato il ruolo di esaltare il ruolo della Chiesa cattolica. La Scala infatti era l’accesso al Palazzo Vaticano e quindi riservato a visitatori di alto rango sociale. La prospettiva è esaltata dal doppio colonnato ionico e mediante un piccolo accorgimento stilistico, le pareti laterali convergono dal basso in alto e questo aumenta idealmente le distanze. Questo accorgimento non è una novità per il tempo. Infatti Bernini prende spunto non solo dal Teatro Olimpico a Vicenza ma anche dal suo grande rivale Borromini nel palazzo Spada a Roma.

 

Chiesa di Sant’andrea al Quirinale

Sant’Andrea al Quirinale, costruita tra il 1658 e il 1670 è la prima chiesa che Bernini ha realizzato tutto da solo dando piena espressione alla sua visione fantastica dello spazio architettonico. L’incarico venne commissionato al Bernini da Camillo Pamphilj nel 1658, non si trattava di una costruzione ex novo, ma della trasformazione di un antico edificio precedente, collegato al Palazzo del Noviziato dei Gesuiti.
La pianta è composta da un ovale, disposto trasversalmente, secondo il suo asse maggiore, a cui si aggancia la curva aperta verso l’esterno delle due ali che si sviluppano dalla facciata rettilinea. Il risultato è l’alternarsi, perfettamente coerente di un corpo convesso che racchiude la chiesa e di un avancorpo concavo, che aprendosi all’esterno forma un piccolo piazzale e si collega armonicamente con gli edifici vicini.
Un’originale interpretazione del motivo classico è rappresentato dalle due colonne del pronao, impostate su un’inedita base triangolare e ornate di capitelli ionici con motivo di festoni, che si riferisce alle decorazioni presenti sulla cupola.
Allo sporgersi dell’ingresso si contrappone la concavità delle ali laterali che simbolicamente alludono all’accoglienza verso i fedeli.

L’interno, nonostante le reali dimensioni, suscita in chi entra un effetto di dilatazione, dovuto alla scelta di disporre l’ovale della pianta nel senso della larghezza. Lo spazio centrale, coperto dalla cupola, risulta quindi ampio e luminoso, per via delle numerose finestre praticate all’imposta della cupola.
Nell’aula ovale tutt’intorno si aprono, con disposizione radiale, otto cappelle di forme altrenate, rettangolari e ovali, mentre sull’asse minore si fornteggiano la grande nicchia dell’ingresso e quella semicircolare del presbiterio.

La cupola riprende la forma ellittica, come anche la lanterna, è inondata di luce e percorsa da costoloni che si allargano verso il basso, suggerendo l’immagine di un sole. Ogni spicchio è decorato con cassettoni esagonali degradano le loro dimensioni andando verso la sommità e trasmettono un senso di grande leggerezza e ascesa in cui le strutture architettoniche sembrano gonfiarsi e dissolversi in una dimensione immateriale.

All’immagine del divino e dell’infinito espresso dall’architettura concorre anche il colore, di forte valenza simbolica e la decorazione scultorea realizzata in stucco secondo un principio di sostanziale unità delle arti.

Sul timpano che sovrasta l’altare maggiore,  Sant’Andrea in gloria si rivolge verso il cielo e apre le braccia per salire verso Dio. Sulle finestre sono rappresentate coppie di pescatori, i compagni di Andrea (che era un pescatore) e gruppi di cherubini giocosi che sostengono ghirlande sulle quali sembrano appoggiarsi i costoloni della cupola.
La chiesa offre nell’insieme un’immagine solare e festosa della gloria celeste, di grande effetto emozionale.

 

Borromini

Francesco Castelli, detto (forse dal nome della madre) il Borromini nasce a Bissone in Svizzera nel 1599. Quasi esattamente coetaneo del Bernini, ne è il grande antagonista, non soltanto per la rivalità naturale della carriera, quanto per la diversa concezione artistica, pur nell’ambito del Barocco.

Borromini porta con sé una cultura religiosa settentrionale, legata alle correnti luterane o, meglio, al rigore del calvinismo svizzero, al punto da non essere del tutto esente da qualche accusa di eresia , come sottolinea una battuta che sarebbe stata pronunciata dal Bernini, contrapponendo, nell’architettura, se stesso al Borromini:

«Meglio un cattivo cattolico che un buono eretico»

Borromini è l’artista degli ordini monastici, chiusi e rigorosi, macerati nelle penitenze e la sua carriera, fatta eccezione per il periodo del papato di Innocenzio X corrispondente alla disgrazia del Bernini, è piena di amarezze e delusioni: a Roma, in una notte d’agosto del 1667, in una crisi di sconforto, si toglie la vita, trafiggendosicon la spada.

La prima attività del Borromini è quella di semplice scalpellino, che gli permette una lunga pratica nel plasmare la materia, nel sottoporla alla propria volontà, nell’uso del particolare.

Iniziata la carriera di intagliatore di pietre, nel 1608 si trasferì a Milano presso lo zio materno con il quale cominciò il proprio apprendistato nella grande fabbrica del Duomo di Milano allora diretta dall’architetto Francesco Maria Ricchino. Da tale periodo di formazione Borromini derivò un insolito interesse per l’architettura gotica ed alcuni elementi compositivi derivati dalle opere di Ricchino riscontrati nelle sue prime opere architettoniche. Nel 1614 arrivò a Roma, dove fu accolto da Carlo Maderno, suo parente per parte di madre, allora impiegato nella fabbrica di San Pietro. Per molti anni il Borromini non fu che un intagliatore di marmi; solo in un documento del 1625 il suo nome appare preceduto dal titolo maestro; e solo da quella data risulta ufficializzata la sua collaborazione con il Maderno, in occasione della chiusura della porta santa in occasione del giubileo del 1625.

Nel 1629, alla morte del Maderno, le sue attese di essere nominato architetto della fabbrica di San Pietro, vennero frustrate con la nomina a tale ruolo di Gian Lorenzo Bernini il quale, acerbo allora di architettura, lo confermò quale primo assistente, delegandogli di fatto la resa progettuale e strutturale delle proprie idee e disegni. Ma la collaborazione con Bernini cessa improvvisamente in seguito  a una clamorosa rottura, dovuta, forse, più che a banali motivi d’invidia e di prestigio, a divergenze d’ordine artistico, facilmente comprensibili se si paragonano le opere dell’uno a quelle dell’altro. D’ora in poi i due artisti saranno rivali, né mancheranno reciproche accuse e critiche.

I primi incarichi

Solo fra il 1633 e il 1634 Borromini riesce ad ottenere l’incarico di architetto autonomo per la costruzione di una chiesa romana, purtroppo distrutta alla fine del secolo successivo. Pertanto le prime opere che siano in grado di conoscere sono il Convento e la Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma per l’Ordine dei Trinitari Scalzi .

L’edificio è detto «alle quattro fontane» perchè sorge a fianco di un quadrivio che ha lo stesso nome in quanto sui suoi quattro angoli sono poste altrettante fontane.

 

A questo complesso architettonico egli lavora in due momenti diversi, corrispondenti all’inizio e alla fine della sua carriera: dapprima costruisce il Convento con il Chiostro e l’attigua Chiesa, della quale compie la facciata solo nell’ultimo anno della vita.

Il Chiostro, di misure limitatissime, ha forme cinquecentesce: un porticato con forti colonne tuscaniche, reciprocamente collegate con architravi dalla doppia cornice sporgente, che funge anche da capitello, alternati ad archi al piano inferiore; un loggiato più leggero al piano superiore. Ma la solennità cinquecentesca è solo apparente; gli angoli sono tagliati da corpi obliqui, disposti su una linea convessa, come se lo spazio fosse premuto a forza; gli intercolumni sono alternatamente più ampi o più stretti; la luce scende verticalmente, diminuendo via via di intensità, data l’altezza dell’edificio circostante, fino alla penombra del portico.

La Chiesa ha pianta ellittica. Ma l’ellisse, invece che trasversalmente, come nel Colonnato di San Pietro o in Sant’Andrea al Quirinale del Bernini, è disposta longitudinalmente, ottenenendo un senso di compressione invece che di dilatazione.

La chiesa è a pianta mistilinea e le parti corrispondenti ai vertici sull’asse maggiore sono concluse da absidi semicircolari; come una sovrapposizione di una pianta a croce greca allungata e di un’ellisse, costruita geometricamente a partire dalla forma di due triangoli equilateri con le basi sull’asse trasversale.

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Pianta della Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane

La cupola è costruita in laterizio. Quattro arconi riconducono alla perfetta imposta ovale della cupola incisa da un profondo cassettonato nel quale si alternano forme diverse (ottagoni, esagoni, croci) componendo un disegno molto particolare illuminato da due finestre poste alla base e dalla lanterna superiore. Il raccordo tra la cupola e il corpo dell’edificio è realizzato grazie alla presenza di quattro pennacchi che poggiano sulla trabeazione.

Nella facciata Borromini utilizza due ordini, uno superiore ed uno inferiore. La parte inferiore è caratterizzata da una successione di superfici concava – convessa – concava; mentre la superiore presenta tre parti concave di cui la centrale ospita un’edicola convessa. Egli gioca con le fantasiose decorazioni, come la nicchia posta sopra al portale d’ingresso in cui le colonne sono due cherubini le cui ali vanno ad unirsi e creare una copertura alla statua. La facciata culmina con un medaglione ovale a superficie concava sorretto da angeli in volo, un tempo ospitante l’immagine di San Carlo.

 

 

 L’oratorio dei Filippini

Tra il 1637 e il 1640 Borromini venne scelto dai confratelli della Congregazione di San Filippo Neri come architetto del nuovo Oratorio da costruire.

La facciata dell’Oratorio dei Filippini, quasi contemporanea alla costruzione della Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, non si allinea agli edifici attigui, ma se ne distacca, sia per la sporgenza dei pilastri laterali, sia, soprattutto, perchè concava.

Costruita in mattoni su richiesta della congregazione, questa facciata consentì a Borromini, particolarmente propenso all’uso di materiali semplici, quali anche lo stucco e l’intonaco, di realizzare la sua rivalutazione integrale di questa tecnica che prevedeva una “fodera” di laterizio sulla muratura mista, con successiva arrotatura dei mattoni, stuccatura e  stilatura dei giunchi (operazione che consiste nel rifinire nella parte esterna le connessioni tra i mattoni o tra le pietre di una muratura, riempiendo dapprima gli spazi vuoti con malta e poi passando un ferro nelle connessioni medesime in modo da togliere le sbavature e formare un piccolo solco ben delineato).

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Oratorio dei Filippini

 

Borromini ricerca anche effetti di policromia attraverso l’uso di mattoni e tessiture diverse, riducendo i valori di profondità chiaroscurale, ma esaltando l’espressività dell’intera struttura. La zona centrale della facciata e le sue paraste sono in mattoni sottili, a giunti finissimi e di colore giallo paglierino, risaltando rispetto alle parti restanti della facciata, di mattoni normali di colore rosatoscandite da paraste realizzate anch’esse di laterizioLa soluzione d’angolo dispone le paraste giganti fatte invece di mattoni sottili, in modo da annullare l’angolo, sostituito da una porzione muraria concava. Con un virtuosismo derivato dalla grande competenza tecnica di Borromini e dalla pratica del cantiere. Il laterizio, accuratamente levigato in opera mediante la tecnica della sgramatura diventa una materia da plasmare come risulta evidente anche dai particolari costruttivi delle cornici e delle aperture.

Tecnica della sgramatura: La sagramatura è una tecnica di stesura di intonaco su muratura a mattoni faccia a vista.La tecnica è tipica della tradizione emiliana e bolognese nell’architettura tardo medioevale e rinascimentale ed è stata poi esportata in altre regioni d’Italia come tecnica di finitura e come strato di protezione

Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza

Nel 1632 Francesco Borromini divenne architetto della Sapienza e cominciò ad occuparsi della chiesa che doveva sorgere all’interno del complesso universitario. In quel momento l’impianto del cortile su cui doveva affacciare era già stato definito da Giacomo della Porta (architetto e scultore) ed era stata anche prevista una chiesa a pianta circolare con piccole cappelle.

Borromini, invece, progetta un organismo a pianta centrale, ma dalla geometria complessa. I lavori iniziano solo nel 1643, anche se probabilmente la progettazione iniziò prima e attraversò varie fasi, compresa la realizzazione di modelli lignei.

I lavori proseguirono per oltre vent’anni. La prima fase costruttiva fu dal 1643 al 1655 quando la chiesa si trovava ancora al grezzo e con edifici estranei addossati. Dopo un’interruzione i lavori ripresero nel 1659, con il completamento della chiesa, la realizzazione della Biblioteca universitaria Alessandrina e delle facciate su piazza sant’Eustachio e via dei Canestrari. Nel 1660 la chiesa fu consacrata, anche se i lavori proseguirono ancora per qualche anno. La biblioteca fu invece completata dopo la morte di Borromini.

La pianta è costituita da due triangoli equilateri sovrapposti e invertiti; ma gli angoli, che l’autore evita sempre, sono tagliati da linee curve alternatamente concave e convesse e opposte frontalmente.

 

Sono state fatte varie ipotesi sui possibili significati sottintesi in questa pianta.

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Stemma della Famiglia Barberini

Secondo alcuni, i due tringoli rappresenterebbero, schematicamente, le api che figurano nello stemma Barberini, la famiglia di Urbano VIII, il papa regnante quando l’architetto progettò l’edificio (1642).

Anche all’esterno si ripete il motivo dell’aternanza di concavità e convessità e la forma triangolare. Dei contrafforti  curvilinei, ad arco rovescio, stringono la cupola e vanno a sorreggere la lanterna che ha facce concave separate da colonne binate. Il fastigio della lanterna è un elica scultorea che si conclude in una corona sormontata dalla croce. L’elica, che via via si restringe procedendo verso l’alto, imprime all’edificio un senso di movimento rotatorio. Infine la fabbrica si accende nella corona sulla quale la palla e la croce, sostenute da archetti di metallo, sembrano librarsi.

San Giovanni in Laterano

Salito al pontificato nel 1644 Innocenzo X Phamphíli, mentre decade momentaneamente la fortuna del Bernini, Borromini, riceve finalmente le prime commissioni papali.

Nel 1646, in vista del Giubileo del 1650, viene incaricato di rimodernare la basilica paleocristiana di San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma e perciò una delle mete principali dei pellegrinaggi. Il tempo a disposizione era brevissimo: i lavori dovettero essere condotti a un ritmo elevato. Inoltre il papa voleva che, pur rinnovando l’edificio, se ne conservassero la struttura originale, l’abside con il mosaico, il pavimento e il soffitto ligneo del ′500.

L’architetto decide di rivestire le antiche strutture con le nuove. Borromini racchiuse le colonne dell’antica navata centrale in nuovi pilastri, alternati ad archi e caratterizzati da un ordine colossale di paraste. Sui pilastri collocò delle nicchie dalla forma di tabernacolo, riutilizzando parte delle splendide colonne in marmo verde antico che sostenevano le volte delle navate laterali. Nel secondo ordine fece in modo di alternare ai finestroni delle cornici ovali adornate dai motivi vegetali della palma, dell’alloro, della quercia e di essenze floreali, al cui interno lasciò visibili, quali reliquie, lacerti dell’antica muratura costantiniana.

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Interno dell’attuale Basilica di San Giovanni in Laterano

Chiesa di Sant’Agnese in Agone

Nel 1653 l’architetto di dedica alla progettazione della Chiesa di Sant’Agnese in Piazza Navona, per volontà dei Phamphíli che in quella piazza possedevano il proprio palazzo.

Il nome «Agone» deriva dal fatto che la piazza ricalca le forme del Circo Agonale, ossia lo Stadio di Domiziano. Qui secondo la tradizione cristiana, la giovane Agnese, esposta nuda dai torturatori, venne miracolosamente rivestita con i suoi stessi capelli. La chiesa è stata eretta in memoria di questo miracolo.

L’edificio era  già stato iniziato da Girolamo e Carlo Rainaldi; il Borromini dovette perciò modificarlo per imprimergli la sua personalità. Nell’interno smussa gli angoli e dá forma ellittica alla primitiva pianta a croce greca.

La facciata della chiesa, caratterizzata dal suo arretramento nella parte centrale e dalle parti laterali curve, è in mezzo ai due campanili, entrambi culminanti con una copertura conica recante delle croci. Nella facciata, priva di decorazioni all’infuori delle ghirlande fra le lesene, si aprono tre portali, con il centrale più grande rispetto agli altri.

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Chiesa di San’Agnese in Agone

(Buccola Alessandra)