Caravaggio, tra critiche ed innovazione

 

… un pittore non molto simpatico, ma di molto ingegno …  G. morelli

VITA

Michelangelo Merisi (o Amerighi), noto come il Caravaggio, dal suo paese natale in provincia di Bergamo, (Caravaggio, 29 settembre 1571– Porto Ercole, 18 luglio 1610) è stato un pittore italiano

nonimo-ritratto-di-michelangelo-merisi-da-caravaggio-olio-su-tela-inv.-559.jpgcara

formatosi tra Milano e Venezia e attivo a Roma, Napoli, Malta e in Sicilia fra il 1593 e il 1610, e uno dei più celebri pittori italiani di tutti i tempi, dalla fama universale. I suoi dipinti, che combinano un’analisi dello stato umano, sia fisico, sia emotivo, con un drammatico uso della luce, hanno avuto una forte influenza formativa sulla pittura barocca. La prima formazione del giovane Merisi è legata soprattutto all’ambiente lombardo, ma, pur in assenza di notizie biografiche certe, è ipotizzabile che egli sia venuto in contatto anche con il colorismo veneto, al quale è in parte debitore di quella sua particolare sensibilità per le luci e le ombre che, come vedremo, diventerà uno dei  temi inconfondibili della sua pittura.  A tredici anni, nel 1584, Caravaggio  è a Milano nella bottega di Simone Peterzano, un pittore manierista di origine bergamasca; a ventuno anni, invece,  il giovane è a Roma. Durante una brevissima permanenza nell’ ambiente lombardo il giovanissimo Merisi sembra avere assimilato non tanto gli artificiosi concetti manieristici quanto l’aspetto più genuino della pittura lombarda, cioè quell’ inclinazione verso il dato naturale delle cose che affiora sia nelle opere del Quattrocento, sia nei maestri del Cinquecento che traducevano l’aulica narrazione veneziana in un linguaggio più quotidiano e dimesso; fino alle esperienze dei pittori manieristici lombardi che non rinunciavano ad inserire, pur nelle più complesse composizioni artificiose, effetti attentamente osservati di luce naturale o artificiale. Uomo violento e irrequieto, fin dal 1592 si trasferisce a Roma, dove entra in contatto, fra gli altri, con il Cavalier d’Arpino ( 1568 – 1640 ), presso la cui bottega lavora per qualche tempo distinguendosi subito per la straordinaria bravura nel dipingere < nature morte >, vale a dire composizioni con soggetti inanimati (generalmente fiori e frutta) e < scene di genere >.  I primi anni romani furono tuttavia difficili per il ragazzo che già a Milano aveva manifestato  < qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così grande > (come riporta Mancini). Nel 1595,  infine,  la vita dell’artista sembra assestarsi.  Dopo aver lavorato ad un livello artigianale presso un esecutore di opere e presso il pittore Gramatica ed essere stato accolto nell’ Ospedale della Misericordia a causa di una malattia, grazie al suo straordinario talento, egli entra nelle grazie del cardinale Francesco Maria Del Monte, ambasciatore del Granduca Di Toscana a Roma, uomo di vasta cultura e raffinato collezionista d’arte, che divenne suo mecenate e committente. A causa del suo carattere fiero e ribelle, però, egli è continuamente coinvolto in risse e loschi affari, tanto che nel 1606, al termine d’ un litigio più violento degli altri, arriva addirittura a uccidere uno degli avversari, rimanendo a sua volta ferito. Da allora inizia la sua avventurosa e tragica fuga da Roma che inizialmente lo porta a Napoli (1606 – 1607) e poi subito a Malta (1607) , dove lavora per i cavalieri dell’ Ordine e da dove nuovamente fugge, l’anno successivo, nascondendosi  a Siracusa e in varie altre città della Sicilia. Nel 1609 è ancora a Napoli, ove è ferito in un agguato, e infine a Porto Ercole, nella Maremma grossetana, dove nel 1610 muore, solo e disperato, stroncato  dalla malaria e dagli strapazzi.

Risalgono agli anni intorno al 1590 le scene di genere (“I Bari”, la “Zingara che dà la buona ventura”, il “Ragazzo col canestro di frutta”, il “Ragazzo morso dal ramarro”, il “Concerto”, la “Suonatrice di liuto”), i soggetti mitologici e religiosi tradotti in termini moderni come la “Maddalena”,  il “Riposo durante la fuga in Egitto” , il “Bacco”, il cosiddetto  “Bacchino malato” della Galleria Borghese, l’ “Amore vincitore” degli ex Musei di Berlino.

Caravaggio_-_I_bari

I Bari

La scena che viene rappresentata da Caravaggio è una truffa, dove un povero ragazzo sta per essere soggiogato da un suo avversario in combutta con l’altro signore che si trova alle spalle del povero malcapitato. Il ragazzo raggirato è quello che si trova più a sinistra nella composizione e vestito completamente di nero, mentre i due uomini “poco raccomandabili” sono quello al centro e quello più a destra, i quali indossano delle vesti variopinte e nettamente differenti dal ragazzo descritto precedentemente. Il momento che viene rappresentato da Caravaggio è topico: la povera vittima guarda le proprie carte, lasciando intuire che forse è il suo turno, scegliendo con accortezza la prossima mossa, mentre l’uomo più anziano al suo fianco cerca di scorgere le carte per suggerire all’ avversario quale sarà la sua mossa e così da poterla anticipare. I due bari sono dipinti in modo tale che sembrano tendere verso la figura del truffato, come se volessero mettergli pressione o pronti a fare la prossima mossa truffaldina. La luce, proveniente dall’ esterno permette di distinguere nettamente le vesti di tutti i personaggi, ed oltre a questo anche le mura che circondano i soggetti, dandoci un’idea di dove è ambientata la scena. Oltre all’ illuminazione, è molto interessante anche la scelta di rappresentare i soggetti di tre quarti e non frontalmente; Caravaggio, utilizzando questo artificio traccia un confine indelebile con la pittura del passato, proiettandosi verso uno stile che lo renderà immortale. Proprio come accade in altre opere del Merisi, anche in questo caso, le movenze dei personaggi riassumono in modo perfetto la psicologia dei personaggi: da una parte possiamo notare il ragazzo vittima della truffa mentre è rilassato e appoggiato sul tavolo, mentre riflette sulla prossima mossa, senza sapere che in realtà viene ordito un inganno nei suoi confronti; dall’ altra parte i due bari, come detto in precedenza, sembra che stiano quasi “per saltare addosso” al ragazzo, protendendo verso di lui e mettendolo letteralmente alle strette, non dandogli via di scampo. Uno degli elementi che ha permesso agli studiosi di poter definire i ruoli all’ interno di questa scena è la presenza dello spadino addosso al baro in primo piano: la presenza di questa arma serve a suggerire all’ osservatore la poca affidabilità di questo soggetto; altro elemento che serve a differenziare i ruoli dei personaggi è la scelta da parte di Caravaggio di voler rappresentare entrambi i bari solamente con un occhio per mezzo di alcuni artifici, mentre il giovane onesto invece è rappresentato in bella vista con entrambi gli occhi. Ogni elemento inserito nella scena è stato studiato nel minimo dettaglio: le carte presenti sulla tavola e quelle trattenute dietro la schiena dal baro in primo piano hanno permesso di capire che il gioco a cui stanno partecipando è probabilmente quello dello “zarro”  che tradizionalmente è un gioco d’azzardo dove si possono perdere grandi somme di denaro. A rendere estremamente apprezzato questo quadro sono i dettagli: il guanto usurato del baro vicino al giocatore onesto, le piume rovinate del cappello del baro presente in primo piano, le decorazioni della tovaglia su cui viene svolto il gioco, la scatola di backgammon presente sulla sinistra, sono tutti elementi che rendono la scena estremamente realistica ed aggiungono alla composizione quello stile che ha reso quest’opera uno tra i quadri più famosi di tutta la storia dell’arte moderna. Come sappiamo, Caravaggio non dipingeva delle opere prive di senso, ma al contrario, ogni scena che “partoriva” doveva trasmettere un messaggio ben specifico: in questo caso, proprio come accade nella “Buona Ventura condanna un vizio o un malcostume, che in questo caso è il vizio del gioco. A dare maggior credito alla condanna del vizio del gioco da parte di Caravaggio sono gli atteggiamenti dei protagonisti della scena: mentre i bari sono in tensione ed in ansia per la mossa dell’avversario, la povera vittima ha invece un atteggiamento stoico e calmo, che mette a disagio ed in allerta i due malfattori.

Bacco

Bacco

L’opera, dopo diversi movimenti, arrivò presso le collezioni granducali degli Uffizi dove era esposta fino al 1609, ma successivamente venne spostata nei magazzini, lontano dal pubblico, fino alla sua riscoperta nel 1911 in un deposito e che poi venne riportata nuovamente agli Uffizi dove si trova tutt’ora. Tradizionalmente il Bacco viene rappresentato nudo, ma Caravaggio decide di rappresentarlo con un lenzuolo a forma di tunica che gli copre una parte del corpo. Il dio si trova seduto su una sorta di lettino antico, denominato triclinio, il quale era molto utilizzato nel mondo greco durante i simposi. Il Bacco ritratto da Caravaggio sta offrendo allo spettatore del vino che ha appena versato all’interno del calice e tale bevanda è resa in modo estremamente realistico per mezzo delle bollicine tipiche del vino appena versato. Elemento che fa riflettere è la mano con cui il dio sta offrendo il vino, rappresentata in una presa abbastanza sicura, quasi tremolante, tipica di un uomo ebbro. Con la mano destra Bacco trattiene un fiocco, il quale simbolicamente rappresenta un nodo che collega Dio all’uomo e allo stesso tempo è anche un elemento tipico della filosofia neoplatonica. Riguardo l’identità del soggetto sono state fatte diverse ipotesi, ed ecco quali sono quelle più accreditate attualmente:

  • Potrebbe essere lo stesso Caravaggio, proprio come nel “Bacchino malato”, il quale, avrebbe realizzato questo autoritratto per mezzo di uno specchio e ciò spiegherebbe perché Bacco offrirebbe il vino con la mano sinistra; d’altro canto gli elementi fisiognomici del dio sono molto differenti rispetto a quelli del pittore.
  • Potrebbe essere Mario Minniti, amico (e probabilmente anche compagno) di Caravaggio, già protagonista di altri quadri dello stesso pittore. Se il soggetto fosse davvero Minniti, allora l’opera avrebbe un nuovo significato omosessuale.
  • Altri studiosi intravedono nella figura di Bacco lo stesso Cristo redentore, il quale offre il vino utilizzato durante l’Ultima Cena rappresentante il sangue di Dio e allo stesso tempo elemento che ricorda il sacrificio di quest’ultimo.

Qualunque sia l’identità del Bacco, c’è un altro elemento da tenere in considerazione ed emerso solo grazie all’ ausilio delle moderne tecnologie: sembrerebbe infatti che nella caraffa di vino presente all’ interno di questa composizione si possa individuare il volto di un uomo riconducibile ad un autoritratto di Caravaggio.

042boy

Ragazzo morso da un ramarro

Lasciata la bottega del Cavalier d’Arpino, Caravaggio inizia a sperimentare nuove possibilità espressive. Nelle sue prove giovanili (1594-97) spesso di argomento mitologico-allegorico, i soggetti sono generalmente efebiche figure maschili a mezzo busto, classicamente abbigliate, con elementi di natura vegetale. Caravaggio utilizza in queste opere lo specchio come una camera ottica, consapevole che le forme riflesse si definiscono in maniera molto più precisa e plastica che non per osservazione diretta, consentendo così una rappresentazione fedelissima di qualunque oggetto o figura. Nel “Ragazzo morso da un ramarro” del 1594-95, alla rappresentazione del tema – il dolore e la sorpresa, resi attraverso le sopracciglia aggrottate e il gesto della mano – si unisce una virtuosissima descrizione dei particolari naturali: i fiori, i frutti, il ramarro. L’inalterata qualità dell’impegno esecutivo mostra, in particolare, come i vari elementi rappresentati nei quadri di Caravaggio  – oggetti, natura, persone – abbiano per l’artista pari dignità iconografica. L’opera si carica anche di significati simbolici (il dolore del ragazzo ammonisce che il piacere presto si volge in pena), anticipando quel sistema di allusioni morali e letterarie che il pittore svilupperà più compiutamente a contatto con la cerchia del cardinal Del Monte.

Canestra_di_frutta_(Caravaggio)Canestra di frutta

Una sola natura morta risale a questi anni, la “Canestra di frutta“, oggi alla Pinacoteca della Veneranda Biblioteca  Ambrosiana di Milano, dipinta per il cardinale Federico Borromeo, un brano di verità schietta – la mela bacata, i pampini secchi – che trova puntuali confronti negli stralci di natura inanimata che affiorano con lo stesso peso e la stessa autorità delle figure umane nei dipinti sacri e profani di questo momento: fiori e frutta, fogli di musica e strumenti musicali. Si tratta di un olio su tela di piccole dimensioni realizzato intorno al 1597-1601 e acquistato dal cardinale di Milano, nella cui collezione privata è inventariato fin dal 1607. Il soggetto, una natura morta con una semplice canestra di frutta, non rappresenta che un pretesto mediante il quale Caravaggio si pone in condizione di osservare minuziosamente la realtà, indagandone ogni aspetto con attenzione e meticolosità straordinarie. Nonostante l’apparente e disadorna semplicità dell’insieme, la composizione è – al contrario – studiatissima in ogni sua parte. Il cesto, infatti, viene rappresentato secondo una visione perfettamente frontale e occupa un ideale semicerchio avente per diametro il lato inferiore del dipinto stesso. Tale scelta, tutt’altro che casuale,  avrebbe messo in crisi qualsiasi pittore, in quanto rendeva assai più difficile la rappresentazione della profondità prospettica. Particolare attenzione viene riservata ai vari elementi della natura morta. Alcune foglie di vite ci appaiono accartocciate: indizio evidente della loro non perfetta freschezza. Questo preciso desiderio di rappresentare una realtà oggettiva, priva di qualsiasi correzione e abbellimento artificiali, costituisce una delle caratteristiche più originali dell’arte caravaggesca, anche perché diventa la metafora del suo modo di osservare la realtà umana, sempre dominata dalla bruttura e dall’incombere della morte.

La novità caravaggesca consisteva appunto in questa verità di natura che prendeva il posto dei canoni classicisti, dell’astratta idealizzazione della forma della forma, della cultura intesa come continuo  ritorno alle norme e alle regole antiche: è da questo principio che partono non solo le scene di genere, ma anche la meditazione sui soggetti tradizionali; la Madonna della Fuga in Egitto è una semplice donna che si è addormentata sfinita dalla stanchezza e l’unico ricordo aulico di tutto il quadro è la luminosa figura dell’angelo; nell’Amor vincitore, l’unica concessione al mito sono i dardi e le ali posticce; nelle varie redazioni del Bacco la divinità mitologica è a volta a volta ambiguo garzone d’osteria o lo stesso giovane pittore che si ritrae, livido per l’attacco di malaria che lo costrinse a ricoverarsi all’Ospedale della Misericordia.

Caravaggio_-_Il_riposo_durante_la_fuga_in_EgittoRiposo durante la fuga in Egitto

Negli ultimi anni del Cinquecento (1598-99) Caravaggio poteva ormai contare sul favore di committenti  celebri quali le famiglie Doria e Giustiniani e iniziò a cimentarsi nel genere della pala sacra. Nel “Riposo durante la fuga in Egitto” (1596-97) egli opera un autentico rinnovamento dell’iconografia religiosa, offrendo una rappresentazione non idealizzante, bensì semplice e dimessa, dell’episodio biblico, in sintonia con le esigenze di divulgazione e propaganda  devozionale della riforma cattolica. Le note realistiche della scena sono frutto dell’interpretazione lombarda del tema sacro, mentre le figure collocate nello splendido paesaggio ricordano le rappresentazioni sacre in ambiente naturale predilette dai pittori veneti.

09_jpgTesta di Medusa

Il cardinale Francesco Maria Del Monte, che ospita a lungo Caravaggio nel suo palazzo romano, gli commissiona anche diverse opere, tra le quali l’inquietante “Testa di Medusa“. Si tratta di un olio su tela a sua volta incollata sopra uno scudo circolare di legno di forma leggermente convessa. Esso rappresenta con sconvolgente realismo la testa mozzata e sanguinante della gorgone Medusa, che al posto dei capelli ha un viscido intrico di serpenti aggrovigliati. L’espressione della mostruosa creatura, colta nell’istante preciso in cui la testa le viene recisa, è di pauroso sgomento. La bocca, infatti, è spalancata, forse nell’ultimo grido di rabbia e di angoscioso stupore e gli occhi roteano atterriti, come se potessero ancora conservare per un attimo il palpito della vita. Mai un ritratto era stato così crudo e impietoso.

CAPPELLA CONTARELLI

Nel 1599, attraverso il cardinal Del Monte, Caravaggio ottiene la prima commissione pubblica, le Storie di San  Matteo per la Cappella Contarelli in San Luigi dei  Francesi. Lunga e complessa fu l’elaborazione dei grandi dipinti e solo una decina di anni dopo la decorazione della Cappella fu condotta a termine; si trattava ora di affrontare il giudizio del grande pubblico, e di quello più conservatore, e il primo scontro si risolse a svantaggio del pittore. La prima versione del “San Matteo e l’Angelo” fu < tolta via dai preti col dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di santo, stando a sedere con le gambe incavalcate e con i piedi rozzamente esposti al popolo > . Ma la seconda versione, dipinta allo scorcio del secolo, risulterà si più decorosa, ma in fondo più accademica. Nei laterali con la “Vocazione di San Matteo ” e il “Martirio del santo”,  il Caravaggio < ringagliardisce gli scuri > come scrisse Bellori, abbandonando la maniera chiara dei primi dipinti. E’ il momento in cui Caravaggio studia le sue composizioni disponendo i modelli in stanze con le pareti tinte di nero in modo che la luce, che irrompe sempre da una fonte ben determinata, non venga riflessa dalle pareti chiare, ma si concentri sulle figure creando una vicenda  sempre più drammatica di luce piena e di ombre profonde. Non si conoscono disegni sicuri eseguiti da Caravaggio come preparazione alle sue opere, ma sono proprio i dipinti di San Luigi dei Francesi a chiarirci il suo modo di procedere: l’esame radiografico ha infatti messo in luce versioni diverse da quelle definite, rivelando che Caravaggio dipingeva di getto, in < presa diretta >, senza l’accademica preparazione del disegno, salvo poi a mutare profondamente la composizione del dipinto nella versione definitiva, compiendo un’incessante revisione critica del suo operato.

the_calling_of_saint_matthew-caravaggo_1599-1600Vocazione di San Matteo:

Nella “Vocazione di San Matteo” (1599-1600) l’artista precisa le sue principali tematiche figurative.  Il dipinto raffigura il momento in cui, secondo la tradizione evangelica, Gesù sceglie il gabelliere Matteo quale suo apostolo. La scena è ambientata in un locale oscuro e disadorno. All’estrema destra della tela vi sono Cristo, che – appena entrato – tende in maniera risoluta il braccio destro in direzione del futuro apostolo e San Pietro, ritratto quasi di spalle, che lo accompagna. Questi ribadisce il gesto del maestro indicando a sua volta il prescelto con la mano destra. Matteo, seduto al tavolo insieme a quattro compari, è colto nel momento in cui, stupito dall’inaspettato invito, reagisce con un gesto molto naturale, accennando interrogativamente a se stesso con l’indice della mano sinistra, come per sincerarsi che il Signore stesse rivolgendosi proprio a lui. Dei cinque personaggi al tavolo solo Matteo e i due giovani di destra si accorgono della presenza di Cristo mentre gli altri, invece, sono troppo intenti a contare i propri denari per rendersi conto di ciò che sta succedendo. La simbologia caravaggesca appare chiarissima: la chiamata di Dio è sempre rivolta a tutti gli uomini ma ciascuno è libero, secondo la propria coscienza, di aderirvi o di respingerla decidendo quindi anche della propria salvezza o della propria dannazione. Al di là delle simbologie e dei significati religiosi la vera protagonista della tela è comunque la luce. Caravaggio, infatti, la immagina provenire da una porta che dà sull’esterno; la stessa attraverso la quale sono verosimilmente entrati Cristo e Pietro. Grazie a essa le figure assumono volume e risalto, staccandosi dalla tetra penombra e modellandosi in tutto il realismo dei loro particolari. Nello stesso tempo, però, quella luce assume anche una funzione simbolica, in quanto si irradia dalle spalle di Cristo che con il suo braccio teso sembra indirizzarla sugli altri personaggi che a loro volta ne risultano rischiarati e quasi accesi. Si tratta quindi di una luce ideale, la luce della grazia divina che, come in un lampo, congela la posizione e le espressioni di ciascuno, collocandole in uno spazio astratto e senza tempo. Il realismo del Caravaggio è qui evidente non solo nella definizione dei vari caratteri, ma anche nelle posture e negli abiti dei personaggi, trattati sempre con meticolosa verosimiglianza. La rappresentazione, nel suo complesso, non presenta alcun riferimento sacro. Essa, infatti, ha più le caratteristiche di una scena di genere, piuttosto che quelle di un evento religioso. Anche l’aureola sospesa sul capo di Cristo, unico indizio della sua natura divina, è appena percepibile e, come pare, è stata dipinta solo successivamente, per compiacere una committenza insoddisfatta dal carattere troppo laico del dipinto.

Martirio-di-San-Matteo-Caravaggio-analisiL’altra tela laterale della Cappella Contarelli, il “Martirio di san Matteo” (1599-1600), fa riferimento alla biografia del santo, trafitto a colpi di spada dopo la celebrazione della messa. L’evento è tradotto da Caravaggio in una scena di cronaca contemporanea, un omicidio cui assiste lo stesso pittore: la figura sul fondo con barba ed espressione angosciata, alla destra del carnefice, è infatti un suo autoritratto. Indiscussa protagonista di quest’opera è la luce: il deciso chiaroscuro costruisce i volumi, enfatizza la profondità dello spazio ed esalta drammaticamente i volti, i gesti di fuga e la tensione anatomica degli ignudi. Caravaggio raggiunge l’apice del dramma sacro nel gioco di sguardi fra l’uccisore, pronto a sferrare il colpo con la spada, e il santo steso a terra, che tende la mano verso l’alto in gesto di difesa e implorazione.

Nel 1601 Caravaggio eseguì una prima versione di “San Matteo e l’angelo“, la pala centrale per la Cappella Contarelli, aspramente criticata da pubblico ed esperti per le scelte iconografiche e l’eccessivo realismo. Un angelo dalle ali di cigno guida la mano di Matteo nella scrittura del Vangelo che porta il suo nome, come un maestro fa con lo scolaro. Il santo si presenta con un aspetto umile e dimesso; accavalla le gambe portando in primo piano i piedi, in un modo allora ritenuto poco dignitoso per un evangelista e per il protagonista di un dipinto religioso.San_Matteo_e_l'angelo

Così nella seconda versione Caravaggio conferisce a Matteo un’aria più nobile e spirituale: il suo capo è circondato da un’aureola e l’angelo non è più un fanciullo appoggiato fin troppo confidenzialmente al suo fianco, ma un adolescente che scende dal cielo in un virtuosistico movimento di panneggi. La scelta realistica è testimoniata dal naturalissimo movimento del ginocchio di Matteo, che inclina lo sgabello sporgente dalla pedana, mentre la luce del primo piano, insieme vera e simbolica, squarcia il fondo scuro contro cui si delinea la scena.

s.matteo480-copia

Crocifissione di San Pietro

Nel primo lustro del secolo si infittiscono le commissioni ufficiali, prima fra tutte, fra il 1600 e il 1601, quella per Santa Maria del Popolo con la “Crocifissione di San Pietro“e la “Conversione di San Paolo” (grazie ai quali Caravaggio venne ufficialmente riconosciuto nel 1600 come < egregius in urbe pictor >) per i laterali della Cappella Cerasi . Per l’altare Annibale Carracci dipinge la pala dell’Assunta, fitta di personaggi in pose patetiche ed enfatiche di adorazione e di meraviglia, immersi nella luce piena che li tornisce come statue viventi;  tanto più violento è quindi il contrasto con il racconto di Caravaggio, affidato solo ai personaggi  essenziali, ritratti in atteggiamenti naturali, addirittura brutali nel tema crudele della Crocifissione di San Pietro.

Crocifissione-di-San-Pietro-Caravaggio-analisi

Si tratta di una grande tela raffigurante il drammatico momento in cui, dopo che San Pietro ebbe dichiarato di non sentirsi degno di essere condannato allo stesso supplizio di Gesù, venne egualmente crocifisso, ma a testa in giù. Caravaggio ambienta la scena in un’atmosfera cupa e drammatica, cogliendo il momento in cui i tre carnefici stanno lavorando per innalzare la croce. Quello in ginocchio è orientato lungo la diagonale del dipinto e, puntando i piedi al suolo, fa forza con la spalla sinistra per sorreggere la massiccia croce, ulteriormente appesantita dal corpo di San Pietro, che vi è orribilmente inchiodato sopra. La figura grandiosa del vecchio Pietro, l’unica in piena luce, tenta drammaticamente di raddrizzarsi, per contrastare il rovesciamento, secondo un istinto che Caravaggio ha sicuramente studiato dal vero, facendo posare in quella scomoda posizione qualche suo garzone di bottega. Il possente torso, di fattura michelangiolesca, è significativamente inclinato in direzione opposta a quella dei carnefici, creando in tal modo una discontinuità compositiva immediatamente percepibile dall’osservatore. In questa ambientazione, così povera e nuda da essere stata comunque ritenuta quasi blasfema, la luce gioca ancora una volta il ruolo della protagonista principale. Essa proviene dall’alto, a sinistra, e con grande effetto scenografico modella i corpi dei personaggi sottraendoli con diverse modulazioni alle tenebre dello sfondo.

Conversione di Saulo

La “Conversione di Saulo” narra la vicenda si Saulo Tarso (traslitterazione del nome ebraico di san Paolo), persecutore dei primi cristiani, che si convertì in seguito a un avvenimento miracoloso. Durante un viaggio verso Damasco Saulo fu abbagliato da una luce accecante inviata da Dio e cadde da cavallo, riacquistando la vista solo tre giorni più tardi: il passaggio dal buio alla luce segna simbolicamente la sua conversione e allude a una condizione di “risorto”. Nella prima versione del dipinto Cristo appariva di persona, in aperta contraddizione con il dettato biblico, secondo cui Saulo, al momento della folgorazione, udì solo una voce che gli diceva: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”.

Caravaggio-The_Conversion_on_the_Way_to_Damascusconversione-di-paolo-odescalchi

 

Dal 1600 Caravaggio ebbe ripetuti problemi con la giustizia e per questo fu costretto a fuggire da Roma nel 1606.

300px-Caravaggio_-_La_Morte_della_Vergine

 

In questo stesso anno, dipinse la morte della Vergine per la chiesa di S. Maria della scala, ma fu rifiutata poiché Maria era raffigurata come il cadavere di una povera donna morta annegata; in compenso questo dipinto fu subito acquistato dal giovane Rubens. La scena è inserita in un ambiente umile con al centro il corpo morto della Vergine, in primo piano la Maddalena, seduta su una semplice sedia, che piange con la testa tra le mani, e tutt’intorno gli Apostoli addolorati; l’intonazione cromatica molto scura è illuminata dal rosso della veste della morta e della tenda, elemento di una scenografia povera. Inoltre, la composizione degli apostoli, forma, in linea col corpo e col braccio di Maria, una croce perfetta.

la Vergine è ritratta come una giovane, perché rappresenta allegoricamente la Chiesa immortale, mentre il ventre gonfio, rappresenta la grazia divina di cui “gravida”. Da quest’ultimo particolare, ritenuto sconveniente dai più, nacque la leggenda che vuole l’artista essersi ispirato ad una prostituta annegata nel Tevere.

 

Sempre nel 1606 dipinse la cena di Emmaus ispirata al vangelo di Luca. Di questo Caravaggio eseguì due versioni. La prima versione presenta una veduta dall’alto della tavola apparecchiata e un forte scorcio dei discepoli. Mentre, nella seconda, un’anziana vivandiera, l’oste e due discepoli sono testimoni dell’eucarestia. Mentre nella prima c’era più luce e la composizione era più complessa, nella seconda tela, che raffigura lo stesso soggetto del 1601, la scena è estremamente semplice e scura, con pochi oggetti sul tavolo che creano profonde ombre. Rispetto alla tela giovanile, il momento qui raffigurato è successivo, in quanto il pane appare sulla tavola già chiaramente spezzato. Caravaggio vuole evidentemente rappresentare il momento del congedo. Al posto dell’accurata natura morta che compariva sulla tavola della prima opera, qui compaiono solo pochi elementi poveri e dimessi: il pane, la brocca dell’acqua, due semplici piatti. La gamma cromatica è notevolmente ridotta, tendente al monocromo, con poche tinte terrose dalle quali si stacca soltanto l’azzurro della tunica di Cristo. Lo stile abbandona decisamente la grande accuratezza che aveva caratterizzato le opere giovanili, dove venivano enfatizzati i dettagli in grado di conferire verità e concretezza alla scena. Qui la resa più sommaria contribuisce a focalizzare l’attenzione sul forte contenuto emotivo del soggetto, che colpisce fortemente lo spettatore non più distratto dalla minuzia dei particolari. Permangono comunque brani di notevole naturalismo, come il contrasto fra le due mani appoggiate alla tavola, giovane e delicata quella del Cristo, segnata dal sole e dalla fatica quella del pellegrino.

 

jfhdjhfjdhfkshfjs 

Lasciata Roma, il pittore visse spostandosi continuamente, in particolare a Napoli, nel 1606-07, egli dipinse le sette opere di misericordia, si tratta di sette scene, contenute all’interno di un unico dipinto, che rimandano ad altrettanti concetti cristiani. In questo dipinto si combinano naturalismo e simbolismo, inoltre, ogni figura è colpita da un fascio di luce che ne rende pienamente comprensibile l’azione.

L’opera ha una composizione serrata, che concentra in una visione d’insieme diversi personaggi, ma può essere confusa con una semplice scena di genere. Sulla parte superiore del dipinto, a supervisionare l’intera scena che si svolge nella parte bassa, vi è la Madonna col Bambino accompagnata da due angeli.

Le sette opere di misericordia sono nella tela del Merisi così raffigurate:
-“Seppellire i morti”: è raffigurato sulla destra con il trasporto di un cadavere di cui si vedono solo i piedi, da parte di un diacono che regge la fiaccola e un portatore.
-“Visitare i carcerati” e “Dar da mangiare agli affamati”: sono concentrati in un singolo episodio: quello di Cimone, che condannato a morte per fame in carcere, fu nutrito dal seno della figlia Pero e per questo fu graziato dai magistrati che fecero erigere nello stesso luogo un tempio dedicato alla Dea Pietà. Sullo stesso luogo fu poi edificata la Basilica di San Nicola in Carcere.
-“Vestire gli ignudi”: appare sulla parte sinistra concentrato in una figura di giovane cavaliere che fa dono del mantello ad un uomo visto di spalle.
-“Dar da bere agli assetati”: è rappresentato da un uomo che beve da una mascella d’asino, Sansone, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore.
-“Ospitare i pellegrini”: è riassunto da due figure: l’uomo in piedi all’estrema sinistra che indica un punto verso l’esterno, ed un altro che per l’attributo della conchiglia sul cappello (segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela) è facilmente identificabile con un pellegrino.

Grazie a questa rappresentazione il pittore esercitò una fortissima influenza artistica su Napoli, tanto da far nascere lì la prima scuola caravaggesca.

Qui tre delle sette opere di misericordia:

Caravaggio_-_Decollazione_di_San_Giovanni_Battista

Nel 1607 Caravaggio si rifugiò a malta, qui, eseguì la decollazione di S. Giovanni battista per l’oratorio della chiesa di S. Giovanni, in questa rappresentazione riprende l’episodio biblico in cui Erode Antipa fa decapitare Giovanni su richiesta di Salomè. Compaiono nella tela il carceriere imperterrito, il boia che s’appresta a vibrare il colpo finale, una giovane che porta un vassoio su cui raccoglierà la testa del Battista e una vecchia con le mani al volto per l’orrore; sulla destra due carcerati assistono da una grata al martirio.
In questo quadro il rapporto figure-spazio è rovesciato a vantaggio di quest’ultimo, tanto da creare ampie zone di vuoto, mentre attenuando i contrasti luministici, l’artista immerge la scena nella penombra.
Il Santo è colto negli ultimi spasmi di vita, con le mani legate dietro le spalle, ed è coperto con la veste di peli di cammello intrecciati, ed una tunica rossa.
Al centro della composizione è il corto pugnale, detto “misericordia”, col quale il boia s’appresta a spiccare la testa dal busto; al di sotto del Santo la spada con cui era stato vibrato il primo colpo, mentre una corda recisa e fissata ad un anello sulla parete a destra fa intuire cos’era successo qualche istante prima, quando il Santo era stato slegato e portato avanti.
Il muro vuoto della prigione interrotto dalle inferriate, i due prigionieri che osservano la scena ed il tono cupo dell’opera rimandano ad una spietata esecuzione, eseguita alle prime luci dell’alba

Caravaggio si trasferì poi in Sicilia, dove dipinse varie opere contraddistinte da un carattere quasi immateriale. D’ora in poi Caravaggio lavora direttamente su tela, non ha bisogno di schizzi preliminari, il colore è leggero, la pennellata appena visibile, le forme semplificate.

Questa innovazione la troviamo nel dipinto della resurrezione di300px-Michelangelo_Caravaggio_006 Lazzaro eseguita a Messina nel 1609, rappresenta l’evento miracoloso della rinascita di lazzaro dopo la morte. Il pittore stesso si sarebbe autoritratto in quest’opera come l’uomo con le mani giunte dietro l’indice di Cristo. Il realismo è sconvolgente: Lazzaro, obbedendo al gesto di un Cristo in penombra e quasi minaccioso nella sua imponenza, viene investito in pieno dalla salvifica luce divina che, come corrente elettrica, ne scioglie i muscoli irrigiditi dalla morte e gli ridona la vita; nell’atto di rinascere, egli stira le braccia mimando il gesto allusivo della croce.

Attorno alla figura dell’uomo aleggia un clima spettrale e i gesti concitati dei protagonisti sono sintomo di grande tensione.

CARAVAGGISMO IN ITALIA

 Fra gli artisti che sull’esempio di Caravaggio procedettero a un rinnovamento in senso CAL-F-008941-0000naturalistico, ci furono Orazio gentileschi e sua figlia Artemisia. Orazio non fu aggregato alla scuola di pittori naturalistici che si adunarono a Roma e adottarono lo stile caravaggesco, perché diede un’interpretazione libera dell’arte del maestro, egli riprese soprattutto il luminismo caravaggesco, in modo da ottenere effetti più accurati e realistici. Un esempio del suo stile lo troviamo in opere come i martiri Valeriano, Tiburzio e Cecilia, qui un angelo dalle vesti candide pone a valeriano, sposo di cecilia, una corona floreale e un ramo di palma, simbolo del martirio che egli dovrà affrontare insieme a Tiburzio, il cognato della moglie. La luce proveniente da dietro la soglia sul fondo e il risalto plastico delle forme è di chiara ascendenza caravaggesca ma gli abiti preziosi ed eleganti contrastano con gli ambienti umili tipici delle scene religiose di Caravaggio.

 

Anche la figlia di Orazio Gentileschi, Artemisia, si dedicò fin da subito alla pittura, ebbe800px-GENTILESCHI_Judith occasione di osservare molte opere degli artisti a lei vicini, infatti potè anche conoscere di persona Caravaggio. nel 1611 il padre iniziò ad affrescare il palazzo Pallavicini insieme all’artista Agostino Tassi, Orazio chiese lui di insegnare alla figlia la prospettiva ma egli, attratto da Artemisia, la stuprò, nonostante avesse una moglie e intrattenesse una relazione segreta con la sorella della donna.  Questo fatto turbò profondamente la ragazza e il risultato di questo turbamento lo troviamo nella scena notturna di Giuditta e Oloferne ispirata all’episodio in cui la donna ebrea uccide il comandante del rivale esercito assiro per salvare la patria. Nonostante ciò a cui si ispira questo dipinto vuole rappresentare proprio lo stupro da lei subito, la vede come una specie di rivalsa, infatti la donna ebrea è la giovane, mentre Oloferne è Tassi.

Un gruppo di figure ruota attorno al fulcro drammatico dell’azione e questo porta a concentrarsi sul capo riverso di Oloferne. Questo soggetto eguaglia in realismo e orrore le più trucide scene caravaggesche, senza però rinunciare all’eleganza espressa dagli accordi cromatici.

Carlo_Saraceni_-_Mort_de_la_ViergeAltri artisti che si ispirano a Caravaggio sono Carlo Saraceni che grazie al su soggiorno a Roma assimila i modi del primo Caravaggio, questa ripresa del maestro la vediamo in opere come la morte della vergine, altro artista è Bartolomeo Manfredi, uno dei primi artisti ad aderire alla scuola di Caravaggio, del quale divenne più imitatore che interprete.

Contemporaneamente all’affermarsi dello stile caravaggesco, a Roma, dal 1610 persistevano alcuni elementi classici sostenuti dal papato e dalle famiglie dell’aristocrazia romana. Prima del 1630 i caravaggeschi lasciarono definitivamente la città e divennero gli esponenti del gusto ufficiale grazie a delle importanti serie di affreschi.

 

innocenti

Guido Reni giunse a Roma nel 1602, allievo di Ludovico Carracci, godette subito della protezione di papa Paolo V. Dal 1608 al 1614 soggiornò a Bologna e a Roma, dove eseguì i suoi affreschi più famosi. A bologna nel 1611 dipinse La strage degli innocenti, l’armonia qui deriva dalla disposizione delle cinque madri e dei due sicari entro le direttrici di un immaginario triangolo. L’artista si concentra sulla drammaticità dell’evento e sulle emozioni, di cui ne sono la prova la pietà della donna inginocchiata, che prega per i bambini morti e il terrore per il carnefice che la tiene per la chioma. La scena è delimitata da un’architettura classica.

 

 

atalanta

 L’ideale di perfezione perseguito da Reni trova espressione nell’Atlanta e Ippomene, eseguito nel 1612, anche in quest’opera c’è un equilibrio geometrico dato da diagonali parallele e da gesti e posture che conferiscono alla tela un andamento ritmico, sottolineato dalla luce.

 

 

Domenico Zampieri collaborò con il cardinale e teorico dell’arte Giovanni battista Agucchicaccia_diana alla definizione dell’estetica classica. L’imponente serie di affreschi nel coro della chiesa di S. Andrea della valle a Roma concretizza perfettamente la poetica di Agucchi, dove si trova la combinazione all’attenzione per la natura con la selezione di ciò che di più bello in essa possa trovarsi. Principi di ordine governano la composizione delle diverse scene, la luminosità dei colori sottolinea i movimenti e i gesti dei personaggi, raffigurati con naturalezza e solennità. L’ideale classico ispira un dipinto come la caccia di Diana, dove le eleganti figure rivelano suggestioni raffaellesche, inoltre c’è la presenza di un paesaggio ideale ricco di nozioni realistiche.

FrancescoAlbani-Winter(TheTriumphofDiana)

 

Francesco Albani lavorò per Guido Reni e condivise la posizione di Domenico Zampieri. Una spiccata sensibilità lirica portò il pittore a sviluppare rappresentazioni allegoriche e d’ispirazione arcadica. Ne è un esempio, il trionfo di Diana, dove la dea della caccia osserva dal cielo le sue ninfe che disarmano gli amorini addormentati.