Venezia, l’Italia padana: Giorgione, Tiziano e Correggio

Il trionfo del colore a Venezia, crocevia di intellettuali e artisti

Nei primi decenni del Cinquecento, Venezia fa tesoro di una molteplicità di apporti culturali e artistici di varia provenienza, che favoriscono lo sviluppo di un ambiente intellettuale aperto a nuove esperienze. L’inedita peculiarità dell’arte veneziana di questo periodo è la luminosità del colore, modulato in infinite gradazioni tonali.

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Mappa di Venezia – Incisore Mattheus Merian (1650)

Il Rinascimento veneziano

     La visione figurativa di Venezia che si è delineata nel corso della storia fu probabilmente influenzata dalla posizione strategica della città, costruita sull’acqua della laguna. La svolta artistica che interessò la Serenissima nel ‘500, fu favorita dall’incontro tra i pittori locali, quali Bellini, Carpaccio e Cima da Conegliano, e i pittori forestieri, tra cui Perugino, Solario, Leonardo e Albrecht Dürer. Se il primo decennio del secolo fu un periodo di sperimentazione, il secondo e il terzo decennio videro affermarsi artisti del calibro di Giorgione e Tiziano, che segneranno l’arte occidentale. Le opere veneziane presentavano le figure, immerse in spettacolari scorci paesaggistici, costruite sulla tela con virtuosistici tocchi di colore, libere dalle costrizioni dei disegni preparatori. Gli artisti cercavano di accordare i colori nel modo più armonioso possibile, secondo la tecnica del tonalismo, un termine di derivazione musicale utilizzato per indicare l’equilibrio proporzionato tra i vari timbri dei colori.

Il contesto politico culturale

     Nei primi decenni del XVI secolo, Venezia rimane una delle principali metropoli europee nonostante la perdita dell’egemonia sul mar Mediterraneo. Nel secolo del consolidamento degli Stati nazionali europei (Spagna, Francia e Inghilterra),  riuscì a conservarsi come uno dei pochi stati indipendenti della penisola italiana. Tale equilibrio si deve attribuire al forte legame che la classe dirigente della repubblica oligarchica riuscì a mantenere con gli strati sociali. I domini della Serenissima comprendevano il Veneto, il Friuli, Bergamo, Brescia, Crema, la Dalmazia, l’Egeo, Creta e Cipro ma nonostante ciò, il governo propose una temeraria espansione nei territori della Romagna e in alcuni scali pugliesi. Tale progetto aveva destato le inimicizie di Francia, Spagna, papato e impero che, coalizzati nella Lega di Cambrai (1508-10), misero a repentaglio l’esistenza di Venezia. Tuttavia, la città riuscì a sopravvivere; in seguito, il ricco ceto borghese, comprendente mercanti, armatori e banchieri, conobbe il suo periodo di maggior splendore economico. L’intensa attività edilizia e la raffinatezza della vita sociale ne sono una testimonianza.

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L’architettura della Venezia del 1500

    Venezia si distingue tra le città europee per il suo spirito vivace e cosmopolita, per la libertà di costumi e di pensiero. Il convergere di culture diverse è favorito dalla presenza di intellettuali provenienti dalle più diverse aree geografiche, che erano soliti riunirsi nei palazzi dei patrizi per discutere di arte e filosofia. Il gusto umanistico del collezionismo, diffuso fin dalla metà del ‘400, fa convergere negli eleganti salotti di Venezia numerose opere di età classica e di tradizione bizantina. A queste si aggiungono poi alcune opere del Rinascimento fiorentino, i cui princìpi si erano diffusi con il soggiorno padovano di Donatello. L’apertura della cultura veneziana favorisce la presenza di diversi orientamenti filosofici: dall’Aristotelismo eterodosso, naturalistico ed averroistico di Pietro Pomponazzi, alle correnti neoplatoniche che influenzarono la produzione artistica. I temi di quest’ultime, tra cui la musica (come espressione di armonica perfezione immateriale) e l’amore spirituale, furono infatti oggetto di committenze pittoriche da parte dell’aristocrazia, committenze sensibili al fascino del mondo fisico e inclini alla piacevolezza delle emozioni visive, che mostrano una concezione naturale e profana della bellezza, differenziata dall’ambiente tosco-romano.

Uno sguardo d’insieme sui grandi artisti

È dunque nell’ambito di questa raffinata cornice culturale che maturano alcune delle personalità artistiche più importanti del Cinquecento veneto: Giorgione, Tiziano, Sebastiano del Piombo e Lorenzo Lotto.

Giorgione (1478-1510)

    Amante della musica e delle arti figurative, Giorgione dipinge quasi esclusivamente per una selezionata committenza patrizia, della quale condivide i gusti raffinati e gli ideali umanistici. I soggetti delle sue opere sono per lo più mitologici o fantastici, ben diversi dunque da quelli religiosi tipici del tempo. Per questo motivo, il Vasari scrisse di lui:

«Nato per metter lo spirito nelle figure, e per contraffar la freschezza della carne viva più che nessuno che dipingesse non solo in Venezia, ma per tutto […] Nel vero non si ritrova storie che abbino ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona segnalata o antica o moderna»

    È quindi evidente la difficoltà del Vasari ad interpretare i soggetti dei suoi dipinti, ispirati ad una dimensione di simboli e allegorie che, pur traendo spunto dalla realtà, finivano per trasfigurarla, collocandola in un’atmosfera senza tempo. Fu un artista molto fedele alla tecnica del tonalismo, grazie alla quale nessun colore risultava troppo squillante.

  Questo autoritratto (in basso a sinistra) rappresenta Giorgione nelle vesti di David. Oggi il soggetto non è chiaro perché il dipinto, che misura cm 52×43, è arrivato fino a noi ‘ritagliato’ lungo i lati. Il personaggio affiora dall’oscurità col busto di profilo rivolto a destra e la testa girata verso lo spettatore, a cui rivolge uno sguardo diretto. I capelli sono scuri e lunghi, resi vaporosi dall’ondulatura, gli occhi grandi, il naso dritto, le labbra carnose, il mento appuntito, l’espressione leggermente corrucciata e imbronciata, adatta alla figura di David. Indossa un’armatura, che genera un bagliore riflesso sulla spalla, coerente con gli studi sul “lustro” fatti dell’artista. La reale iconografia dell’autoritratto la conosciamo grazie a un’incisione (in basso a destra) del 1650, di Wenzel Hollar, nella quale si vede David-Giorgione che stringe per i capelli la testa mozzata del gigante Golia, in primo piano. Hollar, a sua volta, deriva dall’incisione presente nella seconda edizione de “Le Vite de’ più eccellenti pittùri scultori et architettori” (1568), ispirata all’autoritratto di Giorgione che Vasari vide nel palazzo Grimani, dov’era conservato, e che così descrive: una testa «fatta per David (e per quel che si dice è il suo autoritratto) con una zazzera come si costumava in quei tempi, infino alle spalle, vivace e colorita che par di carne; ha un braccio e il petto armato col quale tiene la testa mozza di Golia».

 

Sebastiano del Piombo (1485-1547)

    Sebastiano Luciani, conosciuto come Sebastiano del Piombo, intraprende la carriera di artista tardi, in quanto inizialmente è un suonatore di liuto. Nelle sue opere sono evidenti le influenze avute durante la sua formazione che avviene, secondo il Vasari, da Giovanni Bellini e Giorgione; inizia anche una collaborazione artistica con Michelangelo Buonarroti, cui si ispirerà nella realizzazione della sua maggiore opera, La Pietà. Fu uno straordinario sperimentatore di pittura ad olio su muro e insuperato ritrattista che si confrontò con orgoglio e successo con Raffaello. La competizione con l’Urbinate si fa esplicita: alla fine del 1516 il cardinale Giulio de’ Medici commissiona due pale d’altare per la sua sede vescovile di Narbonne, una a Raffaello, che esegue la “Trasfigurazione” e l’altra a Sebastiano, che conclude poi nel 1519 “La resurrezione di Lazzaro”. Durante gli ultimi 17 anni della sua vita, la produzione dell’artista si riduce notevolmente, proprio per l’agiatezza economica raggiunta.

«Può sospettarsi che fosse aiutato nell’invenzione; sapendosi che Sebastiano non avea da natura sortita prontezza d’idee, e che in composizioni di più figure era lento, irrisoluto, facile a prometter, difficile a cominciare, difficilissimo a compiere »                                          (Luigi Lanzi, Storia pittorica della Italia, Bassano, 1809)

 Tiziano (1490-1576)

    Con la morte di Giorgione e la partenza di Sebastiano del Piombo per Roma, nella città di Venezia ci fu un passaggio di consegne che costituì l’avvio dell’ascesa di un importante artista, Tiziano Vecellio, che tra il secondo e il terzo decennio del 500, era diventato il pittore e ritrattista ufficiale delle illustri corti italiane (Estensi, Gonzaga e Della Rovere), del re di Francia Francesco I, di Papa Paolo III e dell’imperatore Carlo V. A partire dalla seconda metà del secolo, lavorò principalmente per il re di Spagna Filippo II, per il quale realizzò dipinti religiosi e tele di soggetto mitologico, definite “poesie” dall’artista stesso. Dopo l’iniziale adesione alla studiatissima e controllata tecnica del tonalismo, nella fase più matura, Tiziano iniziò a costruire le sue figure con tinte accese, di grande impatto visivo, pur mantenendo la piacevolezza cromatica tipica del Rinascimento Veneziano.

«Tiziano veramente è stato il più eccellente di quanti hanno dipinto: poiché i suoi pennelli sempre partorivano espressioni di vita.»

(Marco Boschini, Le ricche miniere della pittura veneziana, 1674)

Tiziano Vecellio realizzò una serie di ritratti, definiti dagli studiosi di arte “il suo diario segreto”, dai quali emerge il bisogno dell’artista di esprimersi, di comunicare, di indagare il suo animo e di fissarlo su tela. Dipingere per Tiziano è vivere!

Lorenzo Lotto (1480-1557)

     Dopo un piacevole soggiorno a Roma, presso la corte papale di Giulio II, Lorenzo Lotto si sposta a Bergamo, città allora sotto il dominio veneto, dando così inizio ad un processo di scambio artistico con la capitale. Al contrario del trionfalismo di Tiziano, Lotto si caratterizza per l’anticonformismo e la spiritualità intima e accesa. Negli anni dello Scisma luterano (1517) la pittura lottesca fu tra le più pronte ad esprimere l’inquietudine spirituale e religiose della società a lui contemporanea. La sua vicenda umana fu talvolta segnata da cocenti insuccessi e amare delusioni – in parte colmati dalla rivalutazione nella critica moderna – che fanno della sua figura un soggetto sofferto, introverso e umorale, di grande modernità. Lotto fu un grandissimo ritrattista perché considerò sempre ogni individuo non il protagonista di una storia, ma una persona qualunque. A tal proposito, Argan scrisse di lui:

« Una persona che si incontra e con cui si parla e ci si intende. All’opposto di quelli di Tiziano, i ritratti del Lotto sono i primi ritratti psicologici: e non sono, naturalmente, ritratti di imperatori e di papi, ma di gente della piccola nobiltà o della buona borghesia, o di artisti, letterati, ecclesiastici.»

  Nel corso degli anni, è stato a lui attribuito un probabile autoritratto, quello rappresentato nell’immagine sottostante. La morfologia del viso è caratterizzata da  labbra molto sporgenti, naso lungo, capelli ricci e sopratutto le orecchie dalla forma a fagiolo molto particolare.

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Autoritratto di Lorenzo Lotto

Romanino, Moretto e Savoldo

  Una situazione analoga a Bergamo, fu quella di Brescia che venne a contatto con la Serenissima, avviando una vera svolta artistica. La città vide fiorire tre personalità piuttosto diverse tra di loro:

  • Romanino, che sembrava aver tratto da Lotto la spiritualità tormentata e popolaresca;
  • Moretto, autore di un’arte sacra dai toni composti e meditativi;
  • Savoldo, con una colta e aristocratica compostezza.

Le opere di questi artisti contribuirono a fondere il colorismo veneziano con il realismo lombardo, giungendo così ad un risultato inedito cui si ispirerà il Caravaggio.

Dosso Dossi

    Un artista curioso come Dosso Dossi, deve esser considerato il genius loci della Ferrara di Alfonso d’Este e Ludovico Ariosto. Nel primo quarto del secolo, la sua produzione artistica comprendeva una serie di dipinti mitologici di elevata qualità, caratterizzati dall’edonismo fiabesco tipico dell’Orlando Furioso. Alcuni dei suoi motivi mitologici furono fonte di ispirazione per i pittori emiliani del primo Seicento come Annibale Carracci. Fu un instancabile viaggiatore, sempre aggiornato sulle ultime novità dei centri artistici nevralgici della penisola. Uno degli incontri più fruttuosi è quello con Tiziano, da cui riprese la ricchezza cromatica e le ampie aperture paesaggistiche dal tratto romantico. Si ispirò inoltre a Giorgione, Cosmè Tura e Francesco del Cossa.

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Autoritatto di Dosso Dossi

Correggio (1489-1534)

    Antonio Allegri, detto il Correggio, fu un artista chiave del Rinascimento che operò tra Mantova e l’Emilia, influenzando sia la successiva arte barocca, sia la pittura di impostazione classicista del XVII e del XVIII secolo. A differenza di Dosso Dossi, Correggio operò in poche città dell’Italia centro-settentrionale, alle corti dei Gonzaga e dei signori della sua città, e presso gli ecclesiastici e i borghesi di Parma, Modena e Reggio Emilia. Questa limitatezza di orizzonti rese difficile la comprensione delle sue opere agli altri artisti. Il suo stile prevedeva la morbidezza di modellato, il sentimentalismo dolce e tenero e soprattutto lo sfondamento prospettico e la vertiginosa ascesa verso l’infinito.

Compì l’esperienza più formativa della sua giovinezza a Mantova, culla dell’arte del Mantegna, adottando l’illusionismo che caratterizzerà la maggior parte della sua produzione artistica. In questa stessa città, venne poi a contatto con lo stile del Perugino, del quale riprese la dolcezza nello stile.

   Intorno all’aspetto fisico del Correggio, del quale il Vasari inutilmente ricercò il ritratto, molte sono le indagini e le congetture (R. Finzi). Non è rimasta senza credito l’ipotesi che il Ritratto virile già nella collezione di Lord Lee a Richmond sia un autoritratto eseguito negli ultimi anni.

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Autoritratto del Correggio – 54 cm x 44 cm – olio su tela 

 

Giorgione, artista e mito

“Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo.  Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra.  Tutto, o quasi di lui s’ignora, e taluno giunge a negare la sua esistenza.  Il suo nome non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa . . .”.

Così Il fuoco (1928) di Gabriele D’Annunzio “racconta” il Maestro di Castelfranco.

primo protagonista del rinnovamento della pittura veneziana,che nell’arco di pochi anni si affrancò la sua particolare sensibilità enigmatica e sospesa,spesso frutto di complesse frequentazioni filosofiche ed esoteriche.
Giorgione nasce a Castelfranco tra il 1477 e il 1478, e arriva a Venezia verso il 1503 – 1504, dopo aver lasciato a Castelfranco due opere importanti, il Fregio di Casa Marta ora Museo Casa Giorgione, e la Pala presente in Duomo. Sappiamo poco della sua vita, perché i documenti che lo riguardano sono scarsi. Non conosciamo il nome del suo maestro, probabilmente un pittore di Castelfranco o di Treviso, alla prima formazione trevigiana, si aggiungono poi i maestri con i quali entra in contatto nella capitale.  A Venezia si appoggia alla bottega di Vincenzo Catena, dal quale apprende la tecnica di Giovanni Bellini, mentre attraverso un gruppo di pittori lombardi presenti in laguna, conosce l’insegnamento di Leonardo da Vinci.  Nella capitale ha anche modo di conoscere la pittura di Hieronymus Bosch e quella di Albrecht Dürer. Completamente tagliato fuori dagli incarichi ecclesiastici, ottiene invece due commissioni pubbliche, un telero per Palazzo Ducale e gli affreschi per il Fondaco dei Tedeschi, ricevendo però contestazioni per entrambi i lavori.  Il suo ruolo a Venezia rimane marginale rispetto ai vecchi protagonisti come Bellini, Carpaccio, Cima e le loro botteghe, ma anche rispetto ai nuovi artisti emergenti come Tiziano e Sebastiano del Piombo.  Nel ‘500 il successo pubblico è strettamente legato ai generi celebrativi, la pala d’altare e il telero pubblico; Giorgione rimane invece più chiuso in una dimensione privata, con le sue figure isolate e il suo difficile allegorismo.

Le tre età dell’uomo

L’opera viene identificata con quella descritta da Marcantonio Michiel nel Camerino delle anticaglie di Gabriele Vendramin, citata anche in inventario del 1569. Nel 1657 passò nelle collezioni del pittore Niccolò Regnier, in parte poi acquistate dai Medici tra il 1666 e il 1675, entrando nelle collezioni del gran principe Ferdinando de’ Medici. La tavola col triplice ritratto venne inizialmente attribuita a Palma il Vecchio, poi riferita alla “maniera lombarda”. Nel 1880 Morelli fu il primo a riattribuirla a Giorgione, ipotesi per lo più condivisa dalla critica.

Il soggetto del quadro è ancora molto dibattuto: il ragazzo al centro è intento a leggere uno spartito che l’uomo sulla destra gli indica. Tutti i dipinti di Giorgione nascondono un secondo livello di significato, spesso oscuro: questa lezione di canto è probabilmente un’allegoria e un’intima riflessione sullo scorrere dell’esistenza, in cui è importante passare il testimone alle generazioni future prima che sia troppo tardi, come conferma lo sguardo malinconico del vecchio che attira l’attenzione di chi guarda.

Il fondo scuro fa risaltare l’incisiva scelta cromatica applicata ai personaggi; le vesti e gli incarnati emergono dallo sfondo gradualmente, con il procedimento dello “sfumato” tipicamente Leonardesco. Anche la stesura pittorica con sottili velature deriva da Leonardo, con ‘attenzione meticolosa nei dettagli, come le capigliature dipinte spesso con sottilissime pennellate.

L’elemento allegorico trainante, spesso presente nei quadri di Giorgione, è in questo caso la musica, espressione dell’animo stesso dell’uomo e dell’armonia che lega l’esistenza.

Le tre età dell’uomo ,1500 ca,olio su tavola,62 x 77 cm,Firenze,palazzo pitti,galleria palatina.

Ritratto di un giovane uomo

Nel 1884 il dipinto, che già apparteneva alla collezione Giustiniani di Padova, passò a J. P. Richter, il quale, dopo averlo autorevolmente assegnato al Giorgione (1891), lo vendette alla Staatliche Museen Gemäldegalerie-Dahlem di Berlino. L’assegnazione all’artista si è mantenuta, in seguito, sempre con sostegno universale, fatto davvero molto raro di fronte ad un’opera priva di ogni documentazione storica. Per quanto riguarda la cronologia, G. M. Richter, nel 1937, ipotizzava che l’opera fosse stata realizzata nel periodo giovanile del Giorgione (“dipinta approssimativamente nello stesso periodo della Giuditta”), intorno al 1504; il Fiocco (1941), gli ritardava la data al periodo della maturità perché riconosceva in essa altre peculiarità (“il primo ritratto moderno in cui non si sente più il committente devoto ed eroico uscito da una icona, ma l’uomo solo velato di leggera malinconia”); il Morassi, invece, riteneva che andasse riferita al periodo intorno al 1502-03 (“solo a poca distanza dalla Madonna di Castelfranco”).

Il ritratto mostra un uomo giovane, vestito di un’ampia casacca rigata, allacciata con nastri sopra la camicia bianca, con una folta capigliatura castana che ricade a caschetto, con scriminatura al centro, il volto ovale, gli occhi grandi ed espressivi, il naso robusto, la bocca sottile, segni di barba e baffi appena rasati. Da alcuni dettagli, come il parapetto scalato come le antiche rovine, l’uso del carattere lapidario romano e la posizione fiera e dignitosa dell’uomo, traspare il mondo spirituale e intellettuale dell’effigiato.

Quello in esame è senza dubbio uno dei ritratti più belli, non solo del Giorgione ma del primo Cinquecento, la cui stesura coloristica, allo stesso tempo dolce e corposa, crea effetti di luce ed ombra in perfetta armonia con tutto il contesto, nonostante avesse subito quella drastica pulitura avvenuta nella prima metà del Novecento di cui parlarono il Morassi (1942) ed il Longhi (1951).

Ritratto di un giovane uomo(ritratto giustiniani)  1510 ca, olio su tela, 58 x 46 cm, Berlino ,Staatliche Museen.

Guerriero con scudiero moro

L’opera arrivò a Firenze nel 1821, per uno scambio con la Galleria Imperiale di Vienna, oggi Kunsthistorisches Museum. Anteriormente è registrata negli inventari del Castello di Praga del 1718 con attribuzione a scuola di Tiziano.

Come la maggior parte delle opere riferibili a Giorgione, la critica non è concorde sull’attribuzione né sulla datazione, che oscilla tra il 1500 e il 1510, anno della morte del pittore.

Quando arrivò a Firenze era già ascritta a Giorgione, attribuzione confermata nell’inventario del 1825. L’attribuzione venne poi messa in discussione, così come l’identificazione, priva di alcun avallo scientifico, col Gattamelata. Roberto Longhi (1946) riprese la tradizionale assegnazione a Giorgione, confermata con riserve da Salvini (1954) e smentita da Zampetti (1968), che parlò di una copia da un originale giorgionesco perduto. Altri hanno fatto i nomi di collaboratori e seguaci di Giorgione quali il Cavazzola, il Morone o Giovan Francesco Caroto. Per il colorito metallico è stato fatto anche il nome del Romanino.

La datazione al 1502-1505 circa metterebbe la tela in relazione con la possibile presenza di Giorgione alla corte di Caterina Cornaro, regina spodestata di Cipro, che aveva raccolto attorno a sé ad Asolo un esclusivo circolo di intellettuali e artisti. L’intonazione malinconica dell’opera ha, infatti, fatto pensare ad un legame con le discussioni sull’amore degli Asolani di Pietro Bembo, pubblicato nel 1505, ma oggetto di una lavorazione più lunga.

Dell’opera esiste una copia a Roma, in collezione Gattamelata, e una del XIX secolo nel Palazzo Comunale di Narni.

L’opera è stata restaurata nel 1990 e in tale occasione è tornata alla ribalta un’attribuzione alla fase tarda di Giorgione, mentre apparve meno probabile che mai l’ipotesi che si trattasse di una copia da un originale perduto.

Il ritratto è composto come una piccola scena di genere, anticipando un gusto prettamente secentesco: il guerriero indossa una armatura brunita, guarda direttamente lo spettatore con un’espressione malinconicamente accigliata, regge una spada a due mani in posizione verticale e, sul parapetto, tipico elemento dei ritratti a mezza figura, si trovano appoggiati una scintillante celata con visiera a mantice, una mazzaferrata e gli speroni da cavaliere. Dietro all’uomo d’armi vi è un paggio/scudiero che regge la lancia, di profilo, abbigliato con una sgargiante veste rossa, una gorgiera d’armatura e un berretto bianco.

Se l’identificazione tradizionale col Gattamelata (morto nel 1443) appare ormai tramontata, è stato fatto come nome possibile dell’effigiato quello del condottiero Bartolomeo d’Alviano, capo delle truppe veneziane nella vittoria contro l’imperatore Massimiliano I in Cadore nel 1508.

guerriero con scudiero moro,1501 ca,olio su tela,90 x 73 cm,Firenze,Galleria degli Uffizi.

La pala di Castelfranco

Fu commissionata dal condottiero della Repubblica Veneta, Tuzio Costanzo, per la cappella di famiglia nel duomo di Santa Maria Assunta e Liberale a Castelfranco, in occasione della morte del figlio Matteo, occorsa tra la primavera del 1504 e l’estate del 1505 nel corso di una campagna militare. Il defunto si trova ancora oggi raffigurato in un bassorilievo sulla lapide tombale, ora posta ai piedi dell’altare, ma originariamente murata al lato della cappella.

Come tutte le altre opere di Giorgione, anche questa è stata realizzata per una famiglia dalla classe sociale elevata: non si tratta di una committenza ecclesiastica.

Il 10 dicembre 1972 la pala fu trafugata dal duomo di Castelfranco Veneto e ritrovata dopo circa tre settimane in un casolare abbandonato, sembra dopo il pagamento di un riscatto. Dal 2006 è stata riportata, dopo aver subito un lungo restauro, al luogo d’origine.

L’opera ha una originale composizione, in quanto la Madonna con il Bambino sono posti su un trono molto elevato, creando quindi un distacco verticale molto netto con le due figure di santi posti in basso. I due santi sono da identificare in san Francesco e in san Nicasio, prima creduto san Liberale. Al centro, tra i due santi, è collocato un sarcofago di porfido rosso con lo stemma della famiglia Costanzo,  che simbolicamente rappresenta il sepolcro di Matteo, figlio di Tuzio Costanzo, che commissionò al Giorgione la pala d’altare.

Su questo sarcofago il Giorgione colloca un piedistallo in marmo bianco e quindi il trono con la Madonna e il Bambino. Il distacco tra i due piani orizzontali è ulteriormente sottolineato dal diverso sfondo. Mentre al livello più basso, i due santi hanno come sfondo un muro coperto da un drappeggio rosso, al livello superiore è un paesaggio a far da sfondo alla Madonna seduta in trono.

La composizione è studiata in modo da uniformare in un’unica immagine i diversi piani di profondità, così da rendere coerente i diversi gruppi di figure con i relativi fondali. La scelta di inserire un paesaggio è singolare, e non sappiamo se fu precisa richiesta del committente o una scelta dell’artista. La notevole complessità strutturale richiese particolare attenzione nella costruzione prospettica che viene risolta bene nel disegno del pavimento, meno bene nella sovrapposizione di sarcofago, piedistallo e trono. Grande attenzione è posta dal Giorgione nella scelta dei colori e quindi dei passaggi tonali che creano il distacco dei piani di giacitura delle figure. Mentre il paesaggio in alto ha una luminosità diffusa e chiara, in ombra rimane il muro in primo piano, creando il giusto stacco di profondità. Tuttavia la luminosità molto chiara e diffusa crea qualche ambiguità ottica, soprattutto nel paesaggio che sembra più un affresco dipinto alle spalle della Madonna che non un reale spazio aperto. In seguito la pittura di Giorgione troverà soluzioni sempre migliori al problema gettando le basi per quella pittura tonale che caratterizza tutta la pittura veneziana del Cinquecento.

La pala di Castelfranco,1504-1505,olio su tavola,200  x 152 cm,Castelfranco Veneto(Treviso),Duomo.

-IL FONDACO DEI TEDESCHI-

Il Fontego dei Tedeschi (o, in italiano, Fondaco dei Tedeschi) è un palazzo di Venezia, situato nel sestiere di San Marco e affacciato sul Canal Grande, in posizione adiacente al Ponte di Rialto.

il Fontego dei Tedeschi è di antica fondazione (XIII secolo) e legato alle esigenze commerciali della Repubblica di Venezia: esso era punto d’approdo delle merci trasportate da mercanti tedeschi di Norimberga, Judenburg ed Augusta che qui le immagazzinavano.

L’edificio originario fu vittima di un incendio devastante nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1505, ma in meno di cinque mesi il Senato veneziano aveva già deciso di ricostruirlo su progetto di Girolamo Tedesco. Si trattava di una completa ricostruzione, che ebbe luogo tra il 1505 e il 1508. A differenza di altri palazzi sul Canal Grande, si decise di non ricorrere a decorazioni marmoree né elementi decorati a traforo, abbellendo piuttosto le campiture libere tra le finestre con affreschi, per i quali vennero chiamati Giorgione e il suo giovane allievo Tiziano. Secondo Dolce, che scriveva nel 1557, la Giustizia di Tiziano, dipinta sul lato della calle, era così bella che venne scambiata per opera del maestro Giorgione, generando un conflitto tra i due.

Nel 1508 venne celebrata la conclusione dei lavori con una messa solenne e nello stesso anno una contesa per il pagamento degli affreschi di Giorgione fa pensare che anche la decorazione esterna fosse completa. verso il 1760 gli affreschi erano ancora discretamente leggibili, come dimostra una serie di incisioni di Anton Maria Zanetti.

Come gli altri fonteghi della città, anche questo fu soppresso con la caduta della Repubblica nel 1797.

È stato a lungo di proprietà delle Poste Italiane. Ceduto nel 2008 al gruppo Benetton per un importo di 53 milioni di euro, si prevede che verrà sottoposto ad un nuovo intervento di recupero statico e funzionale, sotto la direzione artistica dell’architetto olandese Rem Koolhaas, con la creazione di un polo anche culturale.

Fondaco dei tedeschi,Venezia

Esterno

Grande complesso che guarda sul Ponte di Rialto, il Fontego è un edificio a pianta quadrata disposto su tre livelli intorno a un cortile interno, coperto da una struttura in vetro e acciaio, dov’è conservato l’antico pozzo. Al pian terreno cinque grandi arcate a tutto sesto chiudono un portico in dialogo col Canal Grande, dove si scaricavano le merci. Il secondo livello è percorso da una lunga fila di bifore e monofore a cui corrispondono simmetricamente le finestre quadrangolari minori dei due piani sovrastanti. La sommità del palazzo è merlata.

Verso il 1508 la facciata che dà sul Canal Grande fu affrescata per mano di Giorgione e di Tiziano Vecellio, ma oggi del loro lavoro restano pochi frammenti alla Ca’ d’Oro, deteriorati dagli agenti atmosferici e dal clima umido e salmastro della laguna.

Interno

Anche gli interni conservavano opere di inestimabile valore, dei pittori Paolo Veronese, Tiziano Vecellio e Jacopo Tintoretto, di cui oggi si è perduta quasi ogni traccia. Rimangono, a testimonianza della funzione che nei secoli ha svolto l’edificio, i numerosi simboli che i mercanti incidevano, soprattutto sulla pietra delle colonne, per segnalare i vani in cui depositare le merci..

Gli affreschi

Gli affreschi staccati dall’esterno dell’edificio (dal 1937) vennero conservati in varie sedi (Palazzo Ducale, Gallerie dell’Accademia), prima di essere ricomposti nella Ca’ d’Oro.

Di Giorgione restano la Nuda entro un nicchia e frammenti di figure femminili,altre opere del fondaco sono anche la venere dormiente e ritratto di una vecchia.

-La nuda-

Nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1505 andò a fuoco il duecentesco edificio del Fondaco dei Tedeschi, la sede commerciale della nazione tedesca a Venezia. Il Senato veneziano approvò in meno di cinque mesi un nuovo progetto per un edificio più grande e monumentale, che venne edificato entro il 1508. In quell’anno una contesa su un pagamento dimostra che a quell’epoca dovevano essere conclusi gli affreschi sulle pareti esterne, eseguiti da Giorgione e dal suo giovane allievo Tiziano.

Vasari vide gli affreschi nel loro splendore e, pur senza riuscire a decifrarne il significato, li lodò molto per le proporzioni e il colorito “vivacissimo”, che le facevano sembrare “tratte al segno delle cose vive, e non a imitazione nessuna della maniera”.

La Nuda era già piuttosto frammentaria nel 1760, quando fu oggetto di un’incisione di Anton Maria Zanetti. Danneggiati dagli agenti atmosferici, dal clima umido e dal salmastro della laguna, nel XIX secolo gli affreschi vennero infine staccati e musealizzati, tra la Ca’ d’Oro e la Galleria dell’Accademia.

Sotto una finta nicchia si trova una figura femminile nuda, coi capelli raccolti, sicuramente un soggetto simbolico di cui però oggi non si conosce il significato, anche per la perdita delle parti dipinte con gli eventuali attributi.

Nonostante il pessimo stato conservativo si può ancora apprezzare nella figura lo studio sulla proporzione ideale, un tema allora molto in voga, ispirato alla statuaria classica e trattato in pittura in quegli stessi anni anche da Dürer. Inoltre è ancora percepibile la vivacità cromatica, che dava alla figura quel tepore delle carni come se fossero vive, caratteristica dello stile di Giorgione.

La nuda,1507-1508,affresco,250 x 140 cm,Venezia,Galleria Giorgio Fianchetti alla Ca’ d’Oro

-la venere dormiente-

L’opera venne vista in casa di Girolamo Marcello da Marcantonio Michiel verso il 1525. Forse venne commissionata subito dopo le nozze del committente, nel 1507. Nella descrizione del Michiel si cita anche un Cupido, che doveva trovarsi a destra, coperto da un restauro ottocentesco. Lasciata probabilmente incompleta alla morte del pittore nel 1510, venne completata da Tiziano negli anni immediatamente successivi, come riportato da Giorgio Vasari. Probabilmente a Tiziano fu richiesto di modificare il dipinto perché ritenuto troppo idealizzato, non adatto all’occasione matrimoniale: allora Tiziano inserì particolari che – come il morbido panneggio su cui posa il corpo nudo di Venere – accentuavano l’erotismo della rappresentazione.

La figura di Venere era stata probabilmente scelta per giustificare le pretese di discendenza della famiglia Marcello dalla Gens Iulia, che nell’Eneide è celebrata come stirpe nata dalla dea.

La composizione di quest’opera ebbe un’ampia risonanza innanzitutto a Venezia, dove venne ripresa da Tiziano (la celebre Venere di Urbino), Lorenzo Lotto (Venere e Cupido), Dosso Dossi (Pan e la ninfa), Domenico Campagnola e Palma il Vecchio (Ninfa in un paesaggio). Ispirò poi le generazioni di artisti seguenti, come Rubens, Ingres o Édouard Manet (Olympia).

Nel 1697 il mercante C. Le Roy la vendette ad Augusto di Sassonia, con attribuzione a Giorgione. Nell’inventario del 1722 è invece riferita a Tiziano e in quello del 1856 è piuttosto registrata come copia del Sassoferrato da Tiziano. In seguito l’attribuzione si assestò su Giorgione, ammettendo l’intervento di Tiziano.

La Venere dormiente di Giorgione ispirò un vero e proprio genere, ripreso da altri artisti veneziani.

Il dipinto ritrae una donna nuda, languidamente addormentata all’aperto, distesa su un telo bianco e un cuscino coperto da un drappo rosso, sullo sfondo di un paesaggio aperto (le case sono identiche a quelle del Noli me tangere di Tiziano). Come hanno confermato le analisi ai raggi infrarossi, Tiziano dovette riparare alcuni danni riducendo il lenzuolo ed ampliando il manto erboso, con l’aggiunta del drappo rosso. Sua è anche la massa rocciosa scura dietro la testa della donna, che dà l’idea di un anfratto sotto il quale la donna riposa; inoltre curò il cielo e il paesaggio, che da allora usò come repertorio: si trova identico nel Noli me tangere di Londra e speculare nell’Amor Sacro e Amor Profano.

Nonostante il pesante intervento tizianesco, l’invenzione del soggetto è attribuita interamente a Giorgione, che dovette anche aver impostato l’andamento dolce del paesaggio che riecheggia le forme del corpo nudo. Sottili implicazioni erotiche si trovano nel braccio alzato di Venere e nel posizionamento della sua mano sinistra sul suo inguine, che riprende la posa della Venus pudica, sebbene aggiornandola a una posizione distesa. Si tratta però di un’atmosfera misuratamente sensuale e sognante, ben diversa dalle interpretazioni che daranno gli artisti successivi del tema, dove la donna ben sveglia si rivolge spudoratamente allo spettatore, esibendo apertamente la propria nudità, a volte senza neanche il gesto di coprirsi pudicamente.

Inoltre la Venere di Giorgione si distingue per la “brevità poetica”, ovvero la capacità di condensare il significato mitologico in pochi attributi essenziali, ridotti a un messaggio di immediata e durevole presa emozionale suscitata dal nudo idealizzato, che non esclude però l’allusione a significati più complessi. In altre raffigurazioni successive invece si perderà questa selettività di riferimenti, simbolici, arricchendosi di molteplici segnali iconografici.

Venere dormiente,1509,olio su tela,108 x 175 cm,Dresda,Gemàldegalerie Alte Meister.

-ritratto di vecchia-

L’opera è conservata nella cornice originale. Un inventario del 1569 cita il ritratto come de la madre del Zorzon, de man de Zorzon, ovvero “della madre di Giorgione, per mano di Giorgione”. L’opera venne forse vista da Michelangelo di passaggio a Venezia, che ne rimase colpito e la tenne a mente quando creò le figure espressive delle Sibille nella volta della Cappella Sistina.

Su uno sfondo scuro, dietro un parapetto, si vede una donna anziana ritratta a mezza figura di tre quarti, voltata a sinistra. Essa guarda lo spettatore e con un’intensa espressione di dolore dischiude la bocca e sembra rivolgergli delle parole, quelle che sono scritte sul cartiglio che essa tiene in mano: “Col tempo”. Si tratterebbe quindi di un’amara riflessione sulla vecchiaia, come portatrice di devastazione fisica, ma alcuni vi hanno letto anche un significato positivo, legato alla crescita della saggezza.

La donna indossa una berretta bianca floscia, che lascia scoperto un ciuffo di capelli grigi, e una veste rosata, oltre a un panno bianco con frange sull’orlo, appoggiato sulla spalla. Interessante è la doppia rotazione, del busto verso sinistra e della testa verso destra, che dà una particolare intensità all’effigie, e il gesto della mano destra, appoggiata al petto come durante il mea culpa.

Alcuni hanno messo in relazione l’opera con la Vecchia coi denari o “Vanitas” di Dürer (1507, Kunsthistorisches Museum), che ne avrebbe potuto essere il prototipo, portata dal pittore tedesco con sé durante il suo secondo viaggio a Venezia. Se ciò fosse vero allora la Vecchia di Giorgione sarebbe da datarsi al 1508 circa.

Spicca la tecnica pittorica di Giorgione, che creò l’immagine per campiture cromatiche dense e materiche, senza contorni netti e senza un disegno sottostante, direttamente sulla tela, con estrema libertà. Ciò porta una voluta mancanza di uniformità nella stesura, ben visibile a una distanza ravvicinata, che crea un’opera di straordinaria modernità. Si tratta del tonalismo, uno dei contributi fondamentali di Giorgione.

Ritratto di vecchia,1508 ca,olio su tela,68 x 59 cm,Venezia,Gallerie dell’accademia.

La tempesta

L’opera è citata nel 1530 da Marcantonio Michiel che parlò di un “paesetto in tela con la tempesta con la cigana e il soldato, fu de man de Zorzi de Castelfranco” nell’abitazione di Gabriele Vendramin, che probabilmente ne era stato il committente. Si tratta di un semplice appunto che Michiel avrebbe poi voluto sviluppare in un trattato, sulle Vite de’ pittori e scultori moderni, prima di essere preceduto dal Vasari.

Alla morte del Vendramin, il suo testamento (aggiunta del 15 marzo 1522) chiarisce in quanto conto egli tenesse la raccolta privata di dipinti del suo camerino:

“molte picture a ogio et a guazo in tavole et tele, tute de man de excelentissimi homeni, da pretio et da farne gran conto”.

Si raccomandò quindi agli eredi di non alienare né smembrare per alcuna ragione la raccolta.

Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1932 il Comune di Venezia lo acquisì dal principe Giovannelli.

Sebbene non vi siano dubbi sull’autografia, che ne fa uno dei pochi capisaldi nel catalogo giorgionesco, la datazione subisce varie oscillazioni da studioso a studioso, contenute comunque nell’arco che va dal 1500 al 1510, anno della morte dell’artista.

A partire dal XIX secolo l’opera è divenuta oggetto di innumerevoli tentativi di interpretazione, dispute tra gli studiosi e saggi critici.

Alcuni hanno definito l’opera come il primo paesaggio della storia dell’arte occidentale, anche se tale affermazione non tiene conto di disegni (come il Paesaggio con fiume di Leonardo, 1478) o acquerelli (come quelli di Dürer, databili fin dagli anni novanta del Quattrocento). Non è nemmeno detto che il paesaggio sia realmente il soggetto del dipinto, poiché vi compaiono tre figure in primo piano, che probabilmente alludono a un significato allegorico o filosofico che è il reale soggetto della tela e che non è ancora stato convincentemente spiegato dagli studiosi. Alcuni sono anche arrivati ad ipotizzare che il dipinto segni la nascita di immagini “senza soggetto”, nate dalla fantasia dell’autore senza suggerimenti esterni, quali espressioni dello stato d’animo.

In primo piano, sulla destra, una donna seminuda allatta un bambino (la “cigana” o “zigagna” cioè la zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un ruscelletto.

Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine, infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo.

Da un punto di vista stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi dipinti, per arrivare a un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi.

Giulio Carlo Argan evidenzia l’aspetto filosofico sotteso a quest’opera e scrive:

” Appunto questa relazione profonda, vitale, irrazionale tra natura e humanitas costituisce la poesia di Giorgione: una poesia che ha anch’essa la sua determinazione storica nel panteismo naturalistico di Lucrezio “.

La tempesta(paesaggio con figure),1505 ca,olio su tela,82 x 73 cm,Venezia,Gallerie dell’Accademia.

Il tramonto

L’opera, che è nel museo londinese dal 1961. La presenza del santo protettore delle pestilenze (Rocco), farebbe pensare a un dipinto eseguito come ringraziamento per la fine della peste del 1504 in Veneto.

Il dipinto mostra un ampio paesaggio in cui sono inserite alcune piccole figure. Si tratta di san Giorgio , su un cavallo impennato, che uccide il drago di san Rocco e del suo assistente Gottardo, che si prende cura dell’ulcera sulla coscia di Rocco . All’estrema destra si intravede poi sant’Antonio Abate in una caverna. Giorgio e Antonio sono simboli della vittoria sul male. La parte destra è comunque in larga parte dovuta ad un restauro della metà del XX secolo; agli anni trenta risale anche il poetico titolo con cui l’opera è conosciuta.

Come nella Tempesta, i due gruppi di personaggi sono divisi da un torrente. Strani esseri, come il volatile col grosso becco aperto o l’animale goffo nell’acqua, richiamano Bosch, del quale esistevano tre trittici nella collezione Grimani a Venezia.

Protagonista è comunque il paesaggio, che si apre scenograficamente con una vallata tra le due quinte scure del boschetto e della rupe scoscesa.

In questa opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare ad un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea leonardiana, ma anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo del cielo nebuloso. La luce è calda e dorata e forma un connettivo atmosferico che lega le figure con l’ambiente.

Tramonto,1506-1508,olio su tela,73 x 91,5 cm ca,Londra,National Gallery.

I tre filosofi

Come riporta Marcantonio Michiel nella Notizia d’opere del disegno (1525) l’opera venne eseguita per Taddeo Contarini.

Lo storico veneziano la descrive come:

«tela a oglio delli tre philosophi nel paese, due ritti et uno sentado che contempla i raggi solari con quel saxo finto cusì mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco et finita da Sebastiano Vinitiano».

Nel 1636 il dipinto si trovava presso Bartolomeo della Nave, ancora a Venezia; venduto nel 1638 a Hamilton, venne infine ceduto nel 1649 a Leopoldo Guglielmo d’Austria: da allora ha seguito le sorti delle raccolte asburgiche.

La composizione del dipinto è relativamente semplice, con tre personaggi, due in piedi e uno seduto, raggruppati nella metà destra del dipinto, mentre a sinistra prevale un’oscura rupe, di atmosfera leonardesca. Al centro invece, tra la quinta rocciosa e quella vegetale dietro ai “filosofi”, si apre un lontano paesaggio, con un villaggio immerso nel verde, dove il sole è appena tramontato tra le colline che si perdono in lontananza, dai toni azzurrini per effetto della foschia. Il contrasto tra zone di luci e zona d’ombra amplifica la profondità spaziale e facilita la lettura tramite l’individuazione di linee di forza che attraversano la composizione: ne è un esempio la diagonale che parte dall’ombra della rupe e risale lungo la figura del giovane.

I colori sono molto vivaci, ma sapientemente armonizzati nella luce atmosferica, una delle caratteristiche del tonalismo veneto di cui Giorgione fu l’iniziatore e uno dei più importanti rappresentanti.

I tre personaggi, che oltre alla descrizione del Michiel, sono stati identificati nelle fonti antiche anche come astronomi o matematici, e in seguito, nella critica moderna, come possibile rappresentazione dei re Magi, o piuttosto di figure allegoriche. Essi rappresentano le tre età dell’uomo (giovinezza, maturità e vecchiaia), hanno vesti dai colori differenti, forse simbolici (bianco/verde per il giovane seduto, viola/rosso per quello col turbante e giallo/marrone per il vecchio barbuto) e inoltre sono effigiati in tre pose diverse: di profilo, frontale e di tre quarti.

Il personaggio anziano mostra un foglio pieno di calcoli astronomici, sovrastati dalla scritta celus, e tiene nella sinistra un compasso: l’astronomia era uno degli interessi del Contarini, che spesso consultava i testi del lascitoBessarione alla biblioteca Marciana. Il personaggio giovane invece regge in mano un foglio, un compasso nella mano destra e una squadra in quella sinistra, per il calcolo geometrico, fissando la caverna vuota davanti a lui. Questi elementi avvalorano l’ipotesi secondo cui il soggetto sarebbe quello di tre antichi sapienti, le cui conoscenze erano riunite nella figura ideale del committente.

Altre ipotesi legano le tre figure ai tre stadi del pensiero umano: l’umanesimo rinascimentale (il giovane), la filosofia araba (l’uomo col turbante) e il pensiero medievale (il vecchio). Per lo storico della filosofia Giuseppe Faggin i tre personaggi rappresentano gli scienziati Claudio Tolomeo (l’uomo vecchio), Niccolò Copernico (l’uomo giovane) e l’astronomo e matematico arabo Muhammad ibn Jābir al-Harrānī al-Battānī (l’uomo dal turbante).

I tre filosofi,1508 ca,olio su tela,123,5 x 144,5 cm,Vienna,Kunsthistorisches Museum.

Tiziano Vecellio (1490-1576)

“Nessun altro grande artista si appropriò di tanto facendo così poche concessioni; nessun altro grande artista fu tanto flessibile pur restando completamente se stesso.”

(da Problems in Titian, Erwin Panofsky)

Nato a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, fra le montagne del Cadore, tra il 1488 e il 1490, Tiziano Vecellio appartiene ad un’antica famiglia del piccolo centro alpino. Uomo estroverso, instancabile lavoratore, Tiziano attende alle sue opere senza mai avere sosta. La sua carriera è trionfale, la vita di lunga durata, se è vero che la morte sopraggiunge quando il pittore ha già da un po’ superato l’incredibile età di ottant’anni.
Ancora molto giovane, egli abbandona la “magnifica comunità cadorina” per ricevere un’adeguata istruzione pittorica. Giunge così a Venezia, ove i sui primi maestri sono Gentile e Giovanni Bellini.
Tra il 1508 e il 1509, è al fianco del pittore Giorgione nella realizzazione del Fondaco dei Tedeschi. Solo un anno più tardi, la sua fama è già consolidata e riceve commissioni importanti, quali la Pala di san Marco e di Santa Maria della Salute. Nel 1511 affresca la Scuola del Santo a Padova. Ottenuta dal Consiglio dei Dieci una rendita ufficiale, destinata ai pittori migliori, nel 1513 diventa pittore ufficiale della Repubblica di Venezia. La sua attività è frenetica: egli accetta molte commissioni da parte della nobiltà contemporanea, realizzando parecchie opere a soggetto profano.
Nel 1516 Alfonso I d’Este richiede i suoi servigi e nel 1518 gli commissiona la decorazione del “camerino d’alabastro”. Tra il 1519 e il 1526 dipinge la Pala Pesaro per i Frari, e il Polittico Averoldi per la chiesa bresciana dei Santi Nazaro e Celso.
Ormai osannato come il più celebre pittore del tempo, Tiziano è conteso tra le corti italiane: lavora a Mantova per i Gonzaga e ad Urbino per i duchi. Nel 1542 ha inizio la sua collaborazione con papa Paolo III e con la sua famiglia; ben presto si trasferisce a Roma e qui rimane fino al 1546. Nel contempo, la sua apprezzata attività di ritrattista procede ed egli ha l’occasione di  ritrarre Carlo V durante la sua incoronazione nel 1530. L’imperatore e suo figlio Filippo II, futuro re di Spagna, ne fanno il loro pittore prediletto. Tiziano lavora per anni al servizio della famiglia asburgica. Muore il 27 agosto del 1576, mentre infuria la peste, lasciando incompiuta l’opera che avrebbe desiderato venisse posta sulla sua tomba: la “Pietà”.

Ritratto di gentiluomo detto l’Ariosto

Su uno sfondo scuro uniforme un uomo è ritratto a mezza figura con un braccio poggiato su un parapetto su cui si leggono le lettere “T. V.” incise. Egli è col busto di profilo, rivolto a destra, e la testa girata verso lo spettatore di tre quarti, in una posa estremamente colloquiale e accattivante. La veste è ricca ed elegante, con la grande e gonfia manica di raso che domina, come un vero capolavoro cromatico, la rappresentazione. Notevoli sono gli effetti di virtuosismo nel comporre i riflessi del materiale (lucidi sul raso, opachi sulla pelliccia che borda il mantello nero), così come nella rappresentazione specifica e intensamente psicologica del ritratto. L’uomo ha la barba lunga e capelli neri a caschetto, un naso dritto e affilato, occhi espressivi e la bocca serrata, che sembra tradire un sentimento di dignitosa compostezza. La corporeità viene trasmessa dalla luce mattutina che investe il personaggio, in più il gomito sembra sporgere illusionisticamente al di fuori della tela.

Il prototipo dell’opera è sicuramente la ritrattistica giorgionesca, anche se qui Tiziano se ne distaccò evitando la dolcezza modulata del collega e creando una figura di viva e pulsante umanità.

Titian_-_Portrait_of_a_man_with_a_quilted_sleeve
Ritratto di gentiluomo detto l’Ariosto, 1510 ca, Londra National Gallery.
Miracolo della donna ferita dal marito geloso

Questo che sta per essere descritto è uno degli affreschi della Scuola del Santo a Padova in cui l’artista affronta il registro a lui congeniale della narrazione drammatica. L’opera è stata realizzata nel 1511.

La scena è ambientata all’aperto su un terreno incolto, dominato da una rupe rocciosa dall’aspetto minaccioso in parte ricoperta da una vegetazione di un colore verde scuro con sterpi agitati da una bufera simile a quella che turbina nel petto del marito geloso; il tutto sotto un cielo coperto da nubi scure attraverso le quali un piccolo sole cerca a fatica di fare capolino.
In primo piano si vede il cavaliere – il marito, rivestito di un elegante abito a scacchi bianchi e rossi (i colori della città di Padova), accecato dall’idea di essere stato tradito dalla moglie, proteso in avanti con il braccio destro alzato mentre brandisce un pugnale che già ha squarciato il petto della moglie, dal quale zampilla un fiotto di sangue rosso sul corsetto, che lascia intravedere le forme muliebri.
La donna è trattenuta a terra con forza brutale dal marito che le afferra i capelli con la mano sinistra. La moglie, rivestita di un’ampia gonna di un intenso colore giallo (il colore della gelosia), si contorce a terra e con il braccio cerca di schivare gli ulteriori colpi del marito, così concitato che un ciuffo di capelli gli scende quasi davanti all’occhio su un volto barbuto dai profili appuntiti.
Tutto si svolge con rapidità. I due corpi sono coordinati fra loro; ma la violenza, la concitazione del fatto sono espressi dal divergere delle relative posizioni (la disperata contorsione della moglie e l’inesorabile determinazione dell’uomo nel bilanciarsi su una gamba spingendosi avanti con l’altra) e dai contrasti cromatici (l’ampio panneggio giallo della gonna e la bianca camicia insanguinata di lei; la veste a scacchi bianchi e rossi del marito). Dall’affresco emerge l’azione, non la meditazione.
In secondo piano, molto in piccolo, si vede il miracolo: il marito geloso inginocchiato innanzi al Santo oramai pentito della propria violenza mentre la moglie torna sana per intercessione del Santo.
La tecnica compositiva dell’opera è rivoluzionaria. La drammatica efficacia del racconto, l’introspezione psicologica nella resa dei volti, l’immediatezza dei gesti nella violenza brutale dell’uomo che brandisce l’arma e nel terrore che scompone le membra e le vesti della donna buttata al suolo, segnano un evidente distacco dalle fluide atmosfere e tranquille situazioni giorgionesche. Questa può essere considerata la prima opera di Tiziano realizzata in piena autonomia da qualsiasi retaggio artistico precedente nella quale dimostrò un intenso realismo ed un robusto senso dell’azione.

Tiziano,_The_Miracle_of_the_Jealous_Husband
Miracolo della donna ferita dal marito geloso, 1511, Padova, Scuola del Santo.
Concerto campestre

Il percorso di Tiziano non è stato affatto lineare, ma tortuoso fatto di inversioni e ripensamenti. In questa opera Tiziano ritorna all’ermetismo giorgionesco con la convinzione che l’arte debba rivolgersi ad una cerchia estremamente elitaria di fruitori utilizzando un travestimento metaforico.Il quadro è una metafora della musica. Le due donne nude sono in realtà delle allegorie: in questo caso due ninfe, che personificano lo spirito della natura. I due uomini, invece, sono vestiti, segno che appartengono alla realtà e alla cultura del proprio tempo. Il fatto che i due uomini non guardano le due ninfe significa, chiaramente, che non possono vederle. Una delle due ninfe ha in mano un flauto, a significare che la musica, intesa come capacità di creare armonie e melodie, appartiene alla natura. L’altra ninfa sta versando dell’acqua da una brocca in una vaschetta di marmo. Il suo gesto ha un significato preciso: rappresenta un rito di purificazione.La presenza delle ninfe, in questa scena dove si vedono due uomini che stanno cercando di suonare uno strumento musicale, ha il seguente significato metaforico: la musica è un dono che ci fa la natura, a patto di essere puri, cioè di avere un animo sensibile.
Nella mentalità dell’epoca, la musica era considerata la più trascendentale delle arti, per la sua capacità di suscitare emozioni, anche molto intense, solo con dei suoni che non hanno né materia né consistenza. Ma non tutti hanno l’abilità di cantare o di suonare: evidentemente è la natura che decide chi può fare o non fare musica.

gio2[1]
Concerto campestre 1509-11, Parigi, Musée du Louvre.
Amor Sacro e Amor Profano

Quest’opera è stata commissionata da Niccolò Aurelio, patrizio veneziano, per celebrare le nozze con la padovana Laura Bagarotto nel 1514. Le interpretazione che sono date a questo quadro sono varie e le possiamo riassumere schematicamente in quattro punti:

  • Incontro di due donne alla fontana di Amore;
  • Confronto fra due diversi gradi di carità;
  • Rappresentazione di un episodio mitologico (incontro di Medea e Venere, incontro di Psiche e Venere ecc..);
  • Pacificazione matrimoniale dopo una faida tra le due famiglie degli sposi.

Ma l’interpretazione più seguita è quella di Erwin Panofsky che intende il quadro come un manifesto della concezione neoplatonica dell’amore. 

Le donne sedute alle due estremità del sarcofago sono le due veneri gemelle rappresentanti dei due livelli dell’amore. La Venere di sinistra è vestita con un bellissimo abito in raso e ha la testa incoronata da un serto di mirto: rappresenta la Venere Terrena, forza generatrice della Natura. La Venere di destra è nuda e regge un braciere: rappresenta la Venere Celeste, principio metafisico della bellezza eterna e universale. Tra le due la Venere Celeste sembra più importante perchè innalzata rispetto alla gemella e con il suo braccio alzato sembra indicare la strada virtuosa da seguire; la sua nudità è simbolo di verità filosofica.

Secondo la concezione neoplatonica esiste un terzo grado di amore, quello puramente passionale a cui, secondo Panofsky, è dedicato il rilievo del sarcofago su cui si siedono le due Veneri: da sinistra possiamo notare infatti un’erma di Priapo e un cavallo simboli delle passioni non domate; sulla destra si nota la figura di Marte che punisce Adone allegoria della punizione inflitta all’amore pienamente sensuale.

Il bambino, nell’interpretazione di Panofsky, ha la funzione di mediatore tra Cielo e Terra cioè i due tipi di amore; ciò ci viene fatto capire dalla sua azione poichè è intento a rimescolare l’acqua.

Il quadro racchiude quindi una lezione neoplatonica sull’amore il quale deve tendere alla virtus e non alla voluptas. L’Amor Sacro e l’Amor Profano è quindi una lezione di comportamento e filosofia rivolta ai due sposi, il più bel manuale di Galateo mai eseguito.

Le tre età dell’uomo

In un odoroso teatro silvestre il pennello di Tiziano si confronta con l’allegoria delle tre età dell’uomo, assai frequentata nella pittura veneta contemporanea: l’impaginazione idilliaca e bucolica dell’opera è di sapore tutto giorgionesco, sposata tuttavia a un percorso drammatico e di matrice classicistico pagana estranea al predecessore.
Sulla destra della tela incontriamo un gruppo di vigorosi putti, due dei quali perduti in un soffice torpore e uno alato intento ad arrampicarsi sul nodoso arbusto che li sovrasta, suggerendo la volontà di crescita del fanciullo verso la pubertà.

Giungiamo dunque all’età giovanile sulla sinistra, collocata a minor distanza da chi osserva l’opera e la dipinge (non va dimenticato che a realizzarla è un altrettanto giovane Vecellio): la florida beltà di una ninfa sontuosamente abbigliata (dettaglio che potrebbe assimilarla ad una cortigiana) sta riproducendo al doppio flauto una soave melodia, ma viene presto interrotta dall’aitante pastore che, seduto accanto a lei, la attira delicatamente a sé e risponde all’inebriante suggestione del suo musicare con l’ipnosi del primo sguardo d’amore, del quale Tiziano ci regala il ritratto più compiuto e autentico: in esso, la scoperta del piacere sensuale è di prepotenza tanto pungente da tradursi in struggimento, figlio dell’insormontabile necessità di appagamento erotico.

Il fragrante ventaglio cromatico dei gruppi in primo piano contrasta con quello muschiato della vegetazione, sino a indurre l’occhio a procedere verso il centro della tela ove, alquanto distante da noi, riconosciamo infine un anziano canuto, vestito d’un rosa pacato che è già sintomo di conciliazione e bilanciamento delle due fasi esistenziali precedenti (ovverosia, si interpone tra il levigato candore dell’infanzia e il cremisi sanguigno della giovinezza): l’uomo stringe fra le mani l’ultima riflessione sulla vita e le sue caducità, quasi attendendosi conclusioni dai due teschi cui di volta in volta si rivolge; un’offerta di salvezza pare a lui essere avanzata dalla chiesa alle sue spalle,suggerita però come vana dall’incombere funesto e inesorabile di pesanti nubi sopra entrambi.

Pala Pesaro

Dopo i successi degli anni dieci e venti del Cinquecento, la pala Pesaro rappresentò un successivo passo avanti nella concezione della pala d’altare.

Tiziano studiò un’originale composizione a sviluppo laterale della sacra conversazione, calibrata però per il punto di vista laterale, per la collocazione lungo la navata sinistra. Lo spazio della pala apre infatti una sorta di finestra illusoria, con il trono di Maria disposto su un ipotetico altare orientato nello stesso modo dell’altare maggiore.
Il seggio di Maria col Bambino è infatti spostato verso destra, in posizione rialzata e sbieca, come chiarisce l’angolo dei gradini in basso. Attorno ad essa, sui gradini, si trovano i santi, Pietro (con le chiavi appoggiate ai piedi), Francesco d’Assisi (con le stimmate) e Antonio da Padova. Francesco e Antonio erano due importanti santi francescani, omonimi di due fratelli del committente, nonché promotori, soprattutto Antonio, del culto dell’Immacolata Concezione a cui l’altare era dedicato. Il Bambino, protetto dal velo della madre, è voltato verso Francesco e sembra osservarne le stimmate con interesse, come prefigurazione della Passione.

Nella parte più bassa infine, sul pavimento a scacchi, si allineano inginocchiati i committenti. Si tratta di una presenza insolita per Venezia e l’area veneta in generale, che dovette apparire senz’altro innovativa e audace agli occhi degli osservatori dell’epoca. Per motivi politici si evitava infatti solitamente di farsi rappresentare. A sinistra Jacopo Pesaro, isolato, davanti a un armigero ritenuto dai critici San Giorgio che impugna lo stendardo Pesaro-Borgia, decorato da un rametto d’alloro che indica la vittoria, e che tiene alla mano alcuni prigionieri ottomani, uno dei quali indossa un vistoso turbante bianco. A destra si trovano invece i fratelli di Jacopo: Francesco, Leonardo, Antonio, Fantino e Giovanni o Vittore. Il piccolo Leonardo, garante della linea maschile della casata, è girato verso l’osservatore per stabilire un contatto con il reale.
Le due monumentali colonne, di sapore classico, che si perdono oltre il limite della cornice, non descrivono esattamente un edificio in prospettiva ma appaiono piuttosto collocate con libertà per evidenziare le figure di Maria e di Pietro: all’apostolo era riservata dopotutto una posizione preminente anche nella Pala ad Anversa. Sinding-Larsen (1962), osservando le tracce di pentimenti visibili nel cielo, pensò che la pala originariamente aveva come sfondo un’intelaiatura architettonica più tradizionale, con gli elementi della cornice che si prolungavano nello spazio pittorico.

L’orchestrazione cromatica e luminosa è ricchissima. Il rosso squillante di alcune vesti e del vessillo non fa che riprendere i toni caldi dell’Assunta, a sua volta legati al colore dei mattoni che compongono le pareti. I colori sono luminosi, con una prevalenza di tinte pure rispetto ai mezzi toni sfumati, i panneggi cangianti, forti ed espressive le contrapposizioni tra chiari e scuri. L’animazione dinamica arriva a livelli fino ad allora sconosciuti, mentre lo spazio pittorico si dilata in tutte le direzioni, suggerendone la continuazione.

Trionfo di Bacco e Arianna

Fa parte della serie dei dipinti mitologici realizzati tra il 1519 e il 1523 per Alfonso d’Este duca di Ferrara.

La principessa cretese Arianna, sulla spiaggia di Naxos, si aggira disperata per la partenza dell’amante Teseo, salutando afflitta la nave dell’amato che è partita e si intravede sullo sfondo. Improvvisamente la sua attenzione è attirata dalla variopinta processione che le si fa incontro: un carro trainato da ghepardi avanza seguito da satiri, baccanti, animali e fauni. È il corteo trionfale di Bacco che, dal carro, balza incontro alla fanciulla della quale si è immediatamente innamorato: Tiziano lo rappresentò a metà del balzo con cui scendeva dal cocchio, in un audace atteggiamento plastico e dinamico, evidenziato dal drappo rosso che lo avvolge increspandosi per lo spostamento d’aria. Esso rappresenta il fulcro della scena, verso il quale l’occhio dello spettatore è inevitabilmente attratto.
In cielo, intanto, splende la costellazione a forma di diadema della Corona, creata in onore della donna, lanciandone la corona. Lo stesso gesto del dio può essere anche letto quindi come il lancio della corona, forse citando una versione del Discobolo.

Il soggetto deriva da un insieme di fonti classiche che comprendono Ovidio, Catullo[ e Filostrato il vecchio. Tali fonti prevedono due incontri tra Arianna e Bacco: nel primo il Dio la trova dopo l’abbandono di Teseo e la consola, per poi partire per l’India, abbandonandola mentre essa maledice il primo e il secondo amante; nel secondo Bacco, di ritorno dall’India, la consola di nuovo e la porta con sé in cielo trasformando la sua corona d’oro a nove gemme nella costellazione della Corona. È chiaro che Tiziano unificò i due momenti, come è evidente per la presenza della barca di Teseo in lontananza e della costellazione già formata.
L’intera scena è costruita lungo una diagonale, che va da Arianna al Dio fino agli alberi dello sfondo. Essa divide il dipinto in due metà quasi equivalenti, una celeste, rappresentata dal dio sullo sfondo dell’intenso blu lapislazzuli del cielo, e una terrestre, regno di Arianna. Lo slancio di Bacco rappresenta dunque la congiunzione dei due emisferi, secondo la concezione filosofica di armonizzazione degli estremi proprio del neoplatonismo.
Il senso generale del dipinto non è comunque di condanna degli eccessi, ma anzi sottolinea giocosamente la dimensione dionisiaca intesa come liberazione dagli affanni del mondo, tema che il duca scelse esplicitamente nel suo studiolo dove evadeva dagli incarichi politici.

Tiziano durante la stesura pittorica si aiutò col disegno sottostante, ma in alcuni casi variò anche molto consistentemente alcune figure, come ad esempio Arianna. Tali variazioni in corso d’opera furono tra i motivi dei ritardi di cui si lamentò il committente, assieme alla crescente popolarità del pittore e al ricorso relativamente contenuto della bottega nelle opere di quel periodo.
L’opera è uno degli esempi più noti della ricchezza cromatica di cui disponevano i pittori veneziani, avendo facile accesso al miglior emporio mondiale di tali materie prime. Nel Bacco e Arianna infatti Tiziano riuscì a sfruttare a perfezione un po’ tutti i pigmenti a disposizione dell’epoca, nelle qualità più pregiate: verde di malachite, terra verde, verderame e resinato di rame, blu oltremare usato con abbondanza, azzurrite, rosso vermiglione (macinato fine nel velo di Arianna su uno strato di macinato grosso, leggermente più scuro), realgar per la veste arancio della suonatrice di cembali.

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Trionfo di Bacco e Arianna, 1522-23, Londra, National Gallery.
Venere di Urbino

Quest’opera, completata nel 1538 per il Duca di Urbino Guidobaldo II Della Rovere, è molto interessante e intrigante per i suoi significati nascosti. Il quadro rappresenta un’allegoria del matrimonio e doveva servire come modello “didattico” per Giulia Varano, la giovane moglie del duca: l’erotismo evidente del dipinto, infatti, doveva ricordare alla donna i doveri matrimoniali nei confronti dello sposo. L’allegoria erotica è ancora più chiara nella rappresentazione di Venere, dea dell’amore, come una donna terrena e carnale che fissa in modo allusivo lo spettatore noncurante della sua avvenenza

Il colore chiaro e caldo del corpo della Venere, in contrasto con lo sfondo e con i cuscini scuri, risalta ulteriormente il proprio erotismo. Il cagnolino ai piedi della donna è simbolo di fedeltà coniugale mentre alle spalle, la domestica che guarda la bambina mentre rovista in un cassettone è un augurio di maternità.
La forte carica sensuale dell’opera era quindi coerente con l’uso domestico per cui fu commissionata. La posa della figura nuda è sicuramente un omaggio all’amico maestro Giorgione, che nel 1510 aveva dipinto un quadro molto simile, la Venere dormiente. A differenza di Giorgione Tiziano introduce la fondamentale variante dello sguardo ammiccante e vigile della dea puntato verso lo spettatore; la novità è dirompente poichè trasforma la condizione di chi osserva da contemplatore di un nudo a protagonista di un emozionante e più impegnativo dialogo di sguardi. In quest’opera Tiziano grazie all’uso sapiente del colore e dei suoi contrasti, come anche del sottile gioco di significati e allusioni, arriva alla perfetta rappresentazione della donna rinascimentale che, come Venere, diventa simbolo di amore, bellezza e fertilità.

Carlo V alla battaglia di Mühlberg

La fama di Tiziano raggiunse l’apice intorno al 1530 quando ebbe il primo contatto con Carlo V a Bologna, che fu incoronato imperatore da Clemente VII, il quale gli commissionò molte opere.

Quest’opera rappresenta la vittoria dell’imperatore contro i protestanti, la dignità regale dell’effigiato è posta in luce dall’energica maestà del portamento, dall’espressione intensa ma imperturbabile e dalla preziosa armatura lavorata in acciaio e oro. Quest’opera è particolarmente importante perchè con essa nasce il genere del ritratto equestre, una nuova tipologia trattata nei secoli successivi da Rubens, Goya, David e molti altri.

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Carlo V alla battaglia di Muhlberg, 1548, Madrid, Museo del Prado.
Ritratto di Carlo V seduto

“Superba sintesi cromatica di personalità e di status.”

(Enrico Castelnuovo)

In questo dipinto l’imperatore è raffigurato con uno sguardo penetrantee un’espressione grave e concentrata. L’artista attraverso i ritratti voleva offrire allo spettatore un introspezione psicologica dei personaggi.

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Ritratto di Carlo V seduto, 1548, Monaco, Alte Pinakothek.

Ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese

Fu eseguito durante il viaggio romano compiuto intorno al 1546 e il 1547.

Nonostante il senso di solenne ufficialità, dato dall’impostazione a figura intera e dai preziosi paramenti pontifici, Tiziano ha saputo offrire anche in questo ritratto una splendida introspezione psicologica delle tre diverse personalità:

  • Il papa ingobbito dagli anni ma con un animo ancora scaltro e vitale (testimoniato dagli occhi sagaci e mobili);
  • Il cardinale Alessandro intelligente, ambizioso e conscio di sè;
  • Il giovane Ottavio astuto e ostentatamente ossequioso.

Quest’opera seppur connotata da un’immediatezza fotografica mette in evidenza i segni del potere: la veste cardinalizia di Alessandro, il velluto rosso e l’ermellino di Paolo III, l’anello pontificio in mostra.

L’ambivalenza tra ufficialità e immediatezza è accentuata dalla stesura del colore, a pennellate larghe, spesse e veloci.

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Ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese, 1546-47, Napoli; Museo di Capodimonte.
Le Danae di Tiziano

La prima delle due Danae, principessa amata da Giove sotto forma di pioggia d’oro, fu dipinta da Tiziano per commissione della famiglia Farnese intorno al 1545-46. L’immediatezza della scena si esprime nell’essenzialità del piano unico, in cui il corpo mollemente adagiato della giovane donna si pervade di una luce abbagliante.

Quando il futuro Re di Spagna Filippo II divenne il suo principale committente Tiziano replicò, nel 1553-54, per lui la Danae che oggi è conservata nel Museo del Prado. Alla figura di Cupido sostiutuì una vecchia domestica che raccoglie avidamente le monete piovute dall’alto; inoltre, grazie alle pennellate mosse e vibranti che si increspano sulla tela, il corpo della giovane donna dà quasi l’impressione di esser fatto di vera carne. Differente è anche la resa del drappo alla sinistra della Danae, nella visione conservata al Prado si nota la perfetta consistenza del velluto. Da questo dettaglio Tiziano ci fa capire in maniera evidente la sua nuova ricerca per un rapporto diverso tra spazio luce e colore.

 

Il disfacimento della materia pittorica

Tiziano ormai lontano dalla concezione aromoniosamente naturalistica delle opere degli anni trenta arrivò ad uno struggente disfacimento della materia pittorica. Questo impressionante effetto è ottenuto con una tecnica innovativa fatta da grossi grumi di colore perfettamente visibili, che si depositano sulla superficie ruvida sotto forma di brusche pennellate. Vasari le definì così:

“Condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si posson vedere e da lontano appariscon perfette.”

(Giorgio Vasari)

Nell’Incoronazione di spine conservata a Monaco, dipinta tra il 1570-75, la materia sembra disfarsi sotto i colpi di una stesura in cui il colore sembra disposto sulla tela con veri “sfregazzi delle dita” (Citazione di Mario Boschini, scrittore).

Questo aspetto emerge anche in un impressionante Autoritratto degli ultimi anni, circa il 1560, in cui il volto orgoglioso dell’attempato artista e il suo prezioso abito di setarosata danno l’impressione di essere fatti di materia viva e mobile, che si sgrana nella luce, arricchendosi di vibrazioni cromatiche.

 

Il Correggio (1489-1534)  

Dall’ispirazione mitologica all’anticipazione della fantasia barocca

 

«Anch’io sono pittore.»

citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l’ha detto?, 1921

   Ispirandosi alla cultura e ai grandi maestri del Quattrocento, quali Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Mantegna, Correggio inaugurò un nuovo modo di concepire la pittura ed elaborò un proprio originale percorso artistico, che lo colloca tra i grandi del Cinquecento. Egli si impose in terra padana come il portatore più moderno e ardito degli ideali del Rinascimento, introducendo un ampio uso prospettico e una dolcezza espressiva nei personaggi.

La vita

   Antonio Allegri nasce nel 1489 da Pellegrino Allegri e Bernardina Piazzoli degli Ormani a Correggio, cittadina nella piana di Reggio Emilia, dove morirà nel 1534. Lo pseudonimo con cui l’artista è universalmente noto, ovvero il nome del paese natale, testimonia la forte connessione tra la sua formazione artistica e il luogo di origine. Pur essendo sede di una corte aperta al mecenatismo, favorito dal governo della nobildonna bresciana Veronica Gambara, il feudo di Correggio fu escluso dal rinnovamento artistico dell’area fiorentina – romana e dal cromatismo veneziano. Tuttavia, il Correggio riesce a maturare un’innovativa tecnica pittorica che sembra ispirarsi a quella mantovana e romana.

   Di tutti i grandi protagonisti della sua epoca, Correggio è l’artista meno documentato e numerose sono le leggende, affermatesi nei secoli, sulla sua biografia. Per studiare pittura è però quasi certo che Correggio si spostò a Mantova dove fu allievo, in giovanissima età, di maestri che gli infusero l’amore per il mito e la classicità facendogli nel contempo assimilare i caratteri di dolcezza della pittura emiliana del pittore Lorenzo Costa.
Dal 1503 al 1505 alcuni lo collocano nella bottega di Francesco Bianchi Ferrara di Modena, altri lo pongono, almeno fino alla morte di Mantegna (1506) nella bottega del grande pittore. Dal 1506  compie un viaggio a Ferrara mentre è in dubbio un suo spostamento a Roma, città nella quale si trasferì probabilmente per ammirare la grandiosità delle Stanze Vaticane e della Cappella Sistina, divenute ben note anche al Nord. Nel 1519 si sposa con Girolama Merlini, dalla quale ha un figlio maschio, Pomponio, che proseguirà il lavoro del padre, senza eccellere, e tre figlie femmine: Francesca Letizia, Caterina Lucrezia, Anna Geria. Dal 1520 al 1524 si sposta invece a Parma. Ormai Correggio è un pittore affermato, con uno stile riconoscibile e originale, legato alla luce alla quale attribuisce il ruolo principale all’interno della composizione.

Il ruolo del disegno

   Al contrario di quanto affermato dal Vasari, Correggio si dimostra un abile disegnatore che fa del disegno uno strumento preparatorio dei suoi dipinti. Tra la raccolta dei bozzetti prodotti per la decorazione della cupola parmense di San Giovanni Evangelista, è presente il Nudo maschile seduto con putto, realizzato tra il 1503 e il 1524 con la tecnica della matita rossa e nera su carta bianca. Il disegno rappresenta un uomo anziano nudo, forse un apostolo, seduto tra le volute di una nuvola, mentre sulla nuvola sottostante, un putto si avvinghia ai suoi piedi. È evidente il tratto veloce e non troppo sottile che rivela la sicurezza dell’artista; i chiaroscuri sono ottenuti con semplici tratteggi paralleli.

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Nudo maschile seduto con putto, Correggio (1503/1524) – 10,9 cm x 9,1 cm – Londra, British Museum

 

L’ambiente emiliano culla delle opere del Correggio

   Dopo aver trascorso i primi anni della sua carriera nella città natale, Correggio lavora prevalentemente in terra emiliana, spostandosi tra varie città. Prima fra tutte, Parma accoglie il giovane artista, che aveva già dimostrato le proprie capacità inventive e un sensibilità cromatica inedita.

  • La Camera della Badessa

   Tra il 1518 e il 1520, Correggio è attivo a Parma, dove la colta e nobile badessa del ricco convento benedettino femminile di San Paolo, Giovanna da Piacenza, lo incarica di decorare il soffitto della propria camera. La svolta classicista che l’artista imprime alla sua opera, sembra testimoniare il viaggio a Roma effettuato poco prima di giungere in questa città. Gli interventi all’apparato decorativo di un’altra stanza, devono essere attribuiti ad Alessandro Araldi, anch’egli incaricato dalla badessa.

   Correggio realizzò sul soffitto della stanza un finto pergolato a cupola, fitto di fronde e di festoni vegetali, ottenendo così un grande effetto illusorio. La scelta dell’artista sembra riproporre l’architettura picta della Camera degli Sposi del Mantegna  e delle Sala delle Asse affrescata da Leonardo nel Castello sforzesco di Milano.

   Il pergolato è suddiviso in sedici spicchi, ciascuno dei quali presenta nella sua parte più larga, sotto un fascio di fronde e di frutti, un’apertura ovale dalla quale si affacciano, sullo sfondo luminoso del cielo, coppie di amorini intenti a diverse attività, per lo più legate alla caccia e al combattimento, elemento tematico centrale del ciclo pittorico. Al centro del pergolato, un clipeo circolare raffigurante lo stemma della badessa (tre falci di luna). Il tutto è circondato da un fregio in cui teste di toro (bucrani) sorreggono teli di lino che fanno da appoggio a piatti e suppellettili varie.

    Alla base del pergolato, in corrispondenza di ciascuno degli spicchi, si aprono altrettante lunette a grisaille, cioè dipinte con sfumature dello stesso colore (monocromo; in questo caso bruno – grigiastro), che raffigurano finte sculture antiche di soggetto mitologico, probabilmente derivate dalle monete e dalle medaglie dell’età classica. Queste figure ricordano gli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane e perciò contribuirono a rafforzare l’idea di un soggiorno del Correggio a Roma. L’intento dell’artista non è però quello di recuperare lo spirito classicheggiante ma semplicemente quello di collocare le figure entro spazi illusori che provochino stupore nello spettatore. Tale aspetto è ben visibile osservando i vari putti: le loro membra carnose rimandano a una visione della natura pura e incontaminata. Al tema giocoso dei sedici spicchi, si sostituisce quello mitologico e simbolico delle lunette.

Analizziamo ora alcuni particolari:

  • Putto che abbraccia un levriero bianco

In questa scena, un putto accovacciato abbraccia un levriero bianco mentre al suo fianco, un altro putto è colto nel momento in cui si sta allontanando con uno scatto fulmine all’interno della volta, come per osservare cosa sta succedendo nell’ovato successivo. Correggio crea una continuità narrativa, trasforma il ciclo pittorico in una sequenza filmica. Il risultato non può che essere un vivo realismo!

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  • Putto che giocano con un gorgoneion

La scena rappresenta due amorini che giocano con il gorgoneion, una maschera che riproduceva le fisionomie di un Gorgone, da cui deriva il termine, utilizzata nella Grecia del VIII secolo a.C. . Il putto che tiene tra le mani l’oggetto è seduto sul bordo dell’ovato, con la gamba sinistra rappresentata in scorcio prospettico.

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  • Putto che incorda un arco d’ argento

Nell’ovato, un putto sta piegando un arco con grande sforzo, come dimostra il bicipite destro ben teso. Il colore argenteo dell’arma è un chiaro riferimento agli attributi divini di Diana: la tradizione infatti associava la dea alla Luna, i cui freddi raggi erano simboleggiati dall’argento. Al margine sinistro della scena si osserva il profilo e la spalla di un secondo putto, mentre a destra si intravede appena la gamba di un terzo amorino che sorregge un bastone. Come nel caso precedente, sembra che la scena continui al di là della cornice ovale.
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  • Punizione di Giunone

Al contrario della volta, in cui prevaleva il tema giocoso e colorato dei putti, nelle lunette prevale la componente mitologica e simbolica. In particolare, questa scena rappresenta Giunone, sorella e sposa di Giove, punita dallo stesso marito per l’accanimento maturato nei confronti di Ercole. Il corpo nudo della donna mantiene una postura crudele, che esalta allo stesso tempo le membra della ragazza, conferendole grazia e slanciatezza. Le braccia sono legate da una cinghia dorata mentre ai piedi sono appese due incudini, anch’esse d’oro; i capelli sciolti fino alle reni.

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  • Tellus

È rappresentata la divinità protettrice delle messi e della prosperità dei campi, seduta e appoggiata ad un masso tondeggiante, che allude alla forma della Terra, mentre con la mano sinistra sorregge una cornucopia di frutti, simbolo di fertilità e abbondanza; quella destra, invece, tiene un grosso scorpione, definito da Plinio come l’animale terrestre per eccellenza. Infine, ai piedi un grande cesto di vimini al cui interno giacciono spighe mature che alludono all’abbondanza dei raccolti.

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  • Pan che suona la conchiglia

Correggio raffigura Pan, dio dei boschi e della vitalità fecondatrice, nelle vesti di un satiro a quattro zampe, con corna caprine, coda pelosa e barba incolta. Correggio deriva dalla tradizione la conchiglia che il personaggio suona, chiamata asciolaria. In un atteggiamento naturalistico, Pan, con la schiena appoggiata ad un albero, gonfia le guance per soffiare nella conchiglia.

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  Infine, nella parete nord, sulla cappa del camino, è raffigurata Diana sul carro, riconoscibile per la mezzaluna che le orna la chioma. Questa scelta iconografica rivela la volontà dell’artista di omaggiare la committente Giovanna da Piacenza, la cui autorevolezza si riflette nell’indole combattiva della dea latina, simbolo di castità e di natura incontaminata. Correggio dipinge, con tinte tenui e luminose, la giovane Diana che indossa una semplice tunica bianca. La dea è rappresentata nell’atto di condurre il suo carro, trainato da una coppia di cervi dei quali possiamo vedere solo le zampe posteriori. La strana postura di Diana, che non è né seduta, né in piedi, sottolinea la singolarità della visione: sembra che la donna appaia nel sogno! La decorazione è poi arricchita da iscrizione che si ispirano da un lato ai classici, dall’altro agli enigmatici proverbi pitagorici. Non passa inosservata la frase «ignem gladio ne fodias» ovvero «non trafiggere il fuoco con la spada», frase dal chiaro intento polemico nei confronti delle autorità che volevano acquisire il controllo del convento.

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   La lettura iconografica del complesso si deve ad un saggio scritto da Erwin Panofsky nel 1961 che ravvisava negli affreschi, oltre ai conflitti personali della badessa , anche un cammino etico conforme alla filosofia di Marsilio Ficino: possiamo infatti concepire ciascuna scena come un passo avanti nel percorso con cui l’uomo, depurandosi dalle sue spinte materialistiche, giunge alla perfezione dell’anima e alla capacità  di provare un amore spirituale. L’interpretazione di Cavesi del 1990 si sofferma su aspetti più complessi, individuando nella successione delle lunette un’eco della Tabula Cebetis (I secolo a.C.), in cui il viaggio lungo mura concentriche, che prevedeva incontri con i Vizi e le Virtù e il raggiungimento della Salvezza assisa sulla cima di un colle, era allegoria del corso della vita.

   A prescindere dal significato, l’opera del Correggio meraviglia gli osservatori  per la sua bellezza, per gli incarnati morbidi dei putti e per i finti bassorilievi che, come disse Roberto Longhi, pareva «cera fumante» piuttosto che marmo.

  • Cupola di San Giovanni Evangelista

  Il risultato artistico raggiunto dal Correggio nella Camera della Badessa desta grande scalpore nell’ambiente parmense ed è per questo motivo che gli fu commissionata anche  la decorazione della Cupola di San Giovanni Evangelista (940 cm x 875 cm), i cui tratti peculiari sono la libertà di composizione e  la morbidezza pittorica. Il cantiere fu aperto nel 1520 e i lavori si protrassero fino al 1524. Il progetto di Correggio prevedeva una struttura prospettica molto più complessa di quella sperimentata nella Camera della Badessa. Le difficoltà tecniche erano legate principalmente alla scarsa illuminazione e alla deformazione che l’esasperante visione prospettica richiedeva. Di conseguenza, l’artista dovette realizzare per ciascun personaggio diversi bozzetti, prima di raggiungere il giusto equilibrio di forme e proporzioni. sangiovanniAl bordo inferiore della Cupola, gli Apostoli (1), in atteggiamento solenne, dialogano tra loro, affacciati su una densa corona di nubi; al di là di essi le nuvole diventano più rarefatte (2) fino a dissolversi in uno squarcio di luce sfolgorante (4) circondato da cherubini festanti (3). Su questo sfondo la figura del Cristo (5), rappresentata abilmente di scorcio, è sospesa nel vuoto e la sua presenza è percepita solo da San Giovanni l’Evangelista, che volge le mani aperte e lo sguardo verso il cielo (vedi figura in basso a sinistra). Il Correggio ci rappresenta Gesù come si immagina che lo stesso Giovanni possa averlo visto dal suo esilio di Patmos. La raffigurazione diventa dunque grandiosa, maestosa, scenografica e attesta la geniale fantasia dell’artista. Correggio presta poi molta attenzione alla gamma dei colori, così graduati: dai toni freddi delle nuvole in primo piano a quelli caldi e quasi infuocati dei cherubini. Infine, in quest’opera il chiaroscuro diventa uno strumento per accrescere il senso di profondità. Il Correggio amalgama realtà costruita con realtà dipinta, anticipando così una delle caratteristiche principali dell’arte barocca.

 

  • Cupola del Duomo di Parma

assunzione  L’impresa più colossale di Correggio fu la decorazione ad affresco della Cupola del Duomo di Parma, nella quale rappresenta, tra il 1526 e il 1530, l’Assunzione di Maria (1093 cm x 1195 cm). Il pittore raffigura  agli occhi dei fedeli un miracolo in atto, grazie alla costruzione di uno spazio prospettico profondissimo, entro cui colloca strati concentrici di nubi abitate da santi, beati, angeli e cherubini, il cui movimento punta verso la sommità della Cupola stessa. Il tamburo della Cupola diventa un parapetto davanti al quale si distribuiscono le imponenti figure degli Apostoli. Sopra di esse l’architettura scompare, lasciando spazio al Paradiso, che accoglie l’ascesa trionfale della Madonna; la donna partecipa, con gli occhi e le braccia rivolti verso l’altro, al suo soprannaturale volo (vedi particolare in basso). I personaggi sembrano roteare nel cielo immaginario ideato dal Correggio. La creazione correggesca è animata da un denso movimento inedito, che finì per disorientare i canonici del Duomo al punto da provocare l’interruzione dei lavori. Una fonte ottocentesca rivela che i contemporanei definirono l’Assunzione della Vergine un «guazzetto di rane». Eppure, l’opera rappresenta il vertice più alto della produzione dell’artista.

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Particolare della Vergine
Le ultime opere: temi mitologici e moraleggianti

  Dopo la delusione conseguente all’insuccesso ottenuto dall’Assunzione di Maria, Correggio torna nel suo paese natale dove porta a termine quattro oli commissionatigli da Federico Gonzaga, signore di Mantova. La serie de Gli amori di Giove è intrisa di inspirazioni mitologiche che rievocano i primi anni della carriera dell’artista.

  • Danae

   In Danae (161 cm x 193 cm), conservata nella Galleria Borghese di Roma, il Correggio affronta un tema di grande sensualità inspirandosi alle Metamorfosi di Ovidio.danaeLa figlia del re di Argo (1) è colta nel momento in cui Cupido (2) le sta delicatamente scostando il lenzuolo che le copre il sesso, rendendo così possibile l’unione di Giove a lei. La giovane si offre con grazia ad una nube di polvere dorata (3) che scende da una nuvola soprastante (4). In basso a destra, due amorini (5), inconsapevoli di ciò che sta avvenendo alle loro spalle, giocano con le frecce di Cupido. La stanza in cui è ambientata la scena è semplice e presenta una finestra (6)in cui si apre una veduta sul cielo azzurro. Il luminoso candore delle membra della fanciulla, amplificato da quello dei cuscini e delle lenzuola (7), si contrappone all’ombra dello sfondo, rafforzando la sensazione di calda intimità.

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Schema degli elementi

 

  • Trionfo della Virtù

virtù   Il Trionfo della Virtù è un dipinto a tempera su tela (149×88 cm) di Correggio, databile al 1531 circa e conservato nel Museo del Louvre di Parigi. Si tratta di una delle ultime tele commissionate da Isabella d’Este per il suo studiolo, in coppia con l’Allegoria del Vizio.Al centro è rappresentata Minerva, che tiene nella destra una lancia rossa spezzata e nella sinistra un elmo piumato; dietro di lei la Gloria alata le porge una corona di alloro mentre,  assisa alla sua destra, sta una figura femminile circondata dai simboli delle quattro virtù cardinali (la serpe nei capelli segno della Prudenza, la spada simbolo della Giustizia, le redini della Temperanza e la pelle di leone, emblema di Ercole e quindi della Fortezza). La
figura femminile che sta alla sinistra di Minerva è stata interpretata come l’Astrologia, la Scienza o più in generale la Virtù Intellettuale. Nonostante la presenza di alcuni dettagli ( la lancia rossa spezzata) che ci fanno intuire come Correggio si sia ispirato allo stesso dipinto del maestro Andrea Mantegna, lo stile delle due opere è profondamente diverso. Oltre all’artista mantovano, Correggio fece tesoro della produzione artistica di Leonardo, del quale riprende ora la particolare attenzione al mondo vegetale: in primo piano, emerge il prato umido; sullo sfondo invece si innalza una singolare esedra formata da colonne di foglie avvolte su vimini intrecciati.