Il Manierismo tra Firenze e Roma

Il periodo che va dal secondo al settimo decennio del XVI secolo è uno dei più tormentati della nostra storia.

Con la discesa del re di Francia Carlo VIII in Italia avvenne il passaggio dal precario ma felice equilibrio tra i vari stati della penisola al momento del dominio straniero e delle sanguinose guerre tra Francia e Spagna.

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Mappa geo-politica dell’Italia del XVI secolo

Nel 1517 si aprì una frattura tra cattolici e luterani cui reagì il Concilio di Trento, ma quando ormai in Europa i paesi si erano divisi in protestanti e fedeli a Roma.

La pace di Cateau-Cambresis (1559) segnò il predominio della Spagna.

FIRENZE E ROMA

Dopo la repubblica del Soderini i Medici erano tornati a governare a Firenze (1512) ma non riuscendo a rendere solido il dominio della famiglia sulla regione. Clemente VII dovette quindi intervenire investendo ufficialmente i Medici della carica di signori di Firenze con un titolo feudale. Cosimo I de’ Medici riuscì a stabilizzare la situazione con la forza e creò uno stato assoluto esteso in tutta la toscana.

Nel 1506 Leonardo e Michelangelo lasciarono Firenze per dirigersi rispettivamente a Milano e a Roma. Anche Raffaello si mosse verso Roma dove già operava Bramante. Le opere di questi artisti costruirono le basi per una nuova tradizione dalla quale si distaccò

Piero di Cosimo, personalissimo nell’affrontare temi mitologici e opere religiose, in cui fa convivere la mobilità leonardesca delle luci con la cura dei dettagli fiamminga.

Andrea del Sarto fu un altro grande artista di questa epoca che riuscì a raggiungere con pacatezza un classico equilibrio tra rappresentazione naturale e idealità.

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“Natività della Vergine” di Andrea del Sarto.

Ma la serenità di Andrea del Sarto non nascondeva la complessità della sua arte, ben compresa dai suoi allievi Rosso Fiorentino e Pontormo, che rovesciarono la sua perfezione formale in insofferenza ai canoni di armonia. Questi due artisti diedero vita a Firenze a quello che è stato definito “sperimentalismo anticlassico” o “insorgenza anticlassica” dove il classico era rappresentato dall’armonia di Andrea del Sarto. La svolta fu possibile grazie all’assimilazione dell’arte di Michelangelo che era tornato a Firenze nel 1516.

Dopo il Sacco di Roma del 1527 avvenuto durante il papato di Clemente VII molti artisti abbandonarono la sede pontificia divulgando l’arte romana. In Francia Francesco I per ammodernare la tradizione artistica locale chiamò a sè un gruppo aggiornato di artisti (tra cui anche Andrea del Sarto) dando la nascità alla cosiddetta Scuola di Fontainebleau, dal nome del castello che fu cruciale centro di irradiazione.

IL CONCETTO DI MANIERISMO

La definizione di Manierismo (o Età della Maniera) fu coniata nella “Storia pittorica” scritta da Luigi Lanzi a fine Settecento per indicare l’arte europea tra la vicenda artistica di Raffaello e Michelangelo e l’inizio del XVII secolo. La parola “maniera” era stata usata assai frequentemente negli scritti d’arte del Rinascimento, può essere tradotta con “stile” inteso come la specifica appartenenza a un periodo della storia dell’arte. Qualche altra volta invece significa “stile” come espressività personale di ogni singolo artista.

Nel suo discendere da maniera, la parola “manierismo” sottolinea una sorta di esasperazione delle ricerche espressive dei maestri. Venne creato in origine con una connotazione negativa che attualmente si ritiene eccessiva e ingiusta.

Lanzi, come Vasari, sosteneva l’idea di un percorso ascendente della storia dell’arte al cui vertice stavano Raffaello e Michelangelo. Dopo questo apice inarrivabile gli artisti avrebbero potuto solo emulare i due massimi maestri: il compito primario di pittori e scultori diventava quindi quello dell’ imitazione di uno stile, sia pure portando alle estreme conseguenze gli stimoli offerti dai grandi. Ecco però che di conseguenza gli artisti appartenenti a questo periodo diventano semplici imitatori, a cui Lanzi non affibbia una valenza positiva.

Della produzione artistica di Raffaello si riprese la grazia delle figure, di Michelangelo invece il disegno di corpi muscolosi e l’uso di colori freddi e acidi. Uno degli elementi stilistici derivati da Michelangelo che divenne un tratto distintivo del Manierismo fu quello della figura serpentinata, articolata cioè in un movimento di torsione a spirale.

Il Manierismo che estremizza intenti e formule si connota così come un’ arte estrosa; ciò è evidente anche nell’ uso di colori innaturali e eccentrici e nel complesso studio delle pose della figura umana, le cui proporzioni spesso sono forzate all’inverosimiglianza.

Cronologia

All’inizio del Novecento si classificava come manieristica tutta l’arte del Cinquecento dopo gli anni dieci; oggi si distingue invece tra “sperimentalismo anticlassico” e Manierismo vero e proprio. Nella prima fase l’imitazione di Michelangelo si unisce a un fortissimo impeto di ribellione contro la pacatezza espressiva di artisti come il primo Raffaello e Andrea del Sarto. L’arte propriamente manierista nasce invece da un molto meno ribelle ideale di elegante e cortigiana raffinatezza, ispirata non solo a Michelangelo ma anche a Raffaello.

GIORGIO VASARI

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Giorgio Vasari, pittore e architetto nasce il 30 luglio 1511 ad Arezzo, da Antonio Vasari e Maddalena Tacci. Più che per la sua produzione artistica Vasari è ricordato come scrittore e storico per aver raccolto e descritto con grande cura le biografie degli artisti del suo tempo.

Inizia il suo percorso artistico nella bottega del francese Guglielmo Marcillat, pittore ed autore dei cartoni delle vetrate del Duomo di Arezzo. Nel 1524 si reca a Firenze, dove frequenta la bottega di Andrea del Sarto e l’accademia di disegno di Baccio Bandinelli. Ritorna ad Arezzo dopo tre anni, nel 1527, dove incontra il Rosso Fiorentino.Insieme a Francesco Salviati, nel 1529 Giorgio Vasari lavora nella bottega di Raffaello da Brescia: poi si dedica anche all’arte orafa presso Vittore Ghiberti.

Poco dopo, chiamato e protetto dal cardinale Ippolito de’ Medici, Vasari parte per Roma, dove con l’amico Salviati, condivide lo studio dei grandi testi figurativi della maniera moderna.

Negli anni dal 1536 al 1539 viaggia tra Roma, Firenze, Arezzo e Venezia, dipingendo varie opere, tra cui ricordiamo il ritratto del Duca Alessandro de’ Medici, una Natività per l’eremo di Camaldoli, l’Allegoria dell’Immacolata Concezione per la chiesa di S.Apostoli a Firenze.

Rientra poi ad Arezzo e intraprende la decorazione pittorica della sua casa. Dal 1542 al 1544 divide la sua attività fra Roma e Firenze; la sua produzione di pale di altare si fa sempre più intensa, e va sempre più definendosi il suo linguaggio figurativo.

Nel 1550 esce la prima edizione dell’opera a cui è più legata la fama del Vasari: le “Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri”, in cui Vasari riordina tutto il materiale e le notizie raccolte dal 1540 sulla vita e sulle opere degli artisti.

E’ in questo periodo che Giorgio Vasari conosce Michelangelo, il quale gli consiglia “lo studio delle cose di architettura”. Dopo qualche anno Vasari si sposta di nuovo a Roma, per lavorare presso il Papa Giulio III, che gli affida, insieme all’Ammannati, la decorazione della cappella con la tomba del cardinale Antonio del Monte, a San Pietro in Montorio.

Qui rimane fino al 1553, mantenendo un rapporto stretto con Michelangelo e lavorando al servizio di Papa Giulio III.

Nel 1554 torna di nuovo ad Arezzo, chiamato a progettare il coro del Duomo. Si trasferisce con la famiglia a Firenze, su invito del duca Cosimo I de’ Medici, che finalmente lo assume stabilmente al suo servizio.

Inizia un periodo di più costante dimora fiorentina, durante il quale Vasari rivede una posizione egemone nell’ambito artistico della città.

Nel 1555 Cosimo I gli affida i lavori di ristrutturazione e di decorazione di Palazzo Vecchio, che vuole trasformare in residenza principesca. Successivamente gli viene affidata la fabbrica di Palazzo degli Uffizi. L’opera verrà compiuta nel 1580, solo dopo la sua morte.

Del 1563 è l’inizio degli affreschi della volta del Salone di Cinquecento di Palazzo Vecchio, la cui decorazione complessiva sarà la più grandiosa. Terminerà nel 1565, anno in cui gli verrà affidato l’incarico del cosiddetto Corridoio vasariano, che congiunge gli Uffizi a Palazzo Vecchio attraverso l’antico Ponte Vecchio.

Sospesi i lavori nel 1556, intraprende un viaggio in Italia, al fine di raccogliere ulteriori informazioni per la seconda stesura delle “Vite”, che ultimerà dodici anni più tardi, nel 1568.

Nel 1570 torna a Roma chiamato da Pio V, dove in soli otto mesi dipinge tre cappelle in Vaticano: la Cappella di San Michele, San Pietro Martire e Santo Stefano; contemporaneamente avvia la decorazione della Sala Regia.

Alla morte del pontefice Vasari torna a Firenze dove, dopo una lavorazione quasi decennale, conclude la decorazione del Salone dei Cinquecento. Gli viene successivamente affidato l’incarico di affrescare la volta della cupola Brunelleschiana di Santa Maria del Fiore, con un Giudizio Finale.

Dopo pochi mesi è richiamato a Roma da papa Gregorio XIII per proseguire la decorazione della Sala Regia.

Nel 1573, a Roma, mentre lavora all’ultimo incarico, prepara i disegni per la Cupola del Duomo fiorentino. In aprile rientra a Firenze, dove viene inaugurato lo studiolo di Francesco I, di cui aveva iniziato la decorativa. Iniziano i lavori per le logge aretine, su suo disegno.

Giorgio Vasari muore a Firenze il 27 giugno 1574. La sua casa di Arezzo è oggi un museo a lui dedicato.

Fra le sue opere di maggior pregio su tavola va considerata la Cena di S. Gregorio del 1540 nella Pinacoteca Nazionale di Bologna per il Refettorio di S. Michele in Bosco della città. Caratteristica del suo essere artista è il fare cortigiano e imprenditoriale che lo portò ad avere grandi commissioni a Firenze, Roma, Napoli, Bologna, Venezia. Fra i suoi collaboratori, molto attivo e di un qualche talento fu Cristofano Gherardi.

LE VITE

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Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori è una serie di biografie di artisti, scritta nel XVI secolo dal pittore e architetto aretino Giorgio Vasari. Spesso viene chiamato semplicemente Le Vite.

È il primo libro organico di storia dell’arte che ci sia pervenuto, nonché la fonte, spesso unica, di notizie biografiche degli artisti a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, nonché di informazioni su opere d’arte poi disperse, perdute o distrutte.

CONTESTO STORICO

Furono gli esiti non soddisfacenti delle biografie di artisti negli Uomini illustri di Paolo Giovio a spingere Vasari a scrivere una raccolta di vite d’artisti, scritte secondo i canoni della materia che egli stesso ben padroneggiava.

Vasari fu il primo storico dell’arte italiano e l’autore delle prime biografie artistiche, genere enciclopedico che si protrae ancor oggi. L’impostazione degli studi d’arte strutturata come successione di biografie fu sostanzialmente immutata fino all’approccio “per scuole” della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Ne furono ad esempio quotati continuatori Giovanni Paolo Lomazzo, Karel van Mander, Filippo Baldinucci, Joachim von Sandrart e Antonio Palomino.

Fu Vasari a coniare termini ancora oggi consolidati come Rinascimento, Gotico o “Maniera moderna”. Alla popolarità dei suoi scritti risalgono inoltre soprannomi di artisti come Paolo Uccello (Paolo Doni) o Piero della Francesca (Piero de’ Franceschi).

CONTENUTO

Le Vite sono la raccolta delle biografie di molti importanti artisti italiani del Medioevo e del Rinascimento, spesso adottata come riferimento classico per le varie grafie dei nomi. La lista seguente rispetta l’ordine e la suddivisione del libro desunta dalla seconda edizione del 1568 (edizione “giuntina”). In pochi casi, alcune brevissime biografie distinte sono riunite in un unico capitolo.

Le biografie scritte dal Vasari sono generalmente attendibili per i pittori della sua generazione e di quelle immediatamente precedenti, meno per artisti a lui più distanti nel tempo. I critici moderni, grazie a nuove informazioni e ricerche, hanno corretto molte delle sue attribuzioni e date. L’opera rimane comunque un classico anche oggi, sebbene debba essere integrato da ricerche critiche contemporanee.

Con poche eccezioni, il giudizio estetico del Vasari è molto accurato e acuto, tenuto ancora oggi in considerazione. Riuscì a dare giudizi basati su un metro adeguato all’epoca in cui le opere erano state prodotte: ad esempio non rimproverò mai agli autori gotici la rigidezza o la mancanza di profondità spaziale che i suoi occhi potevano percepire, in quanto già reso partecipe dei successivi sviluppi.

Come molti degli storici del suo tempo, Vasari peccò talvolta di un eccesso di zelo, incorporando nelle biografie racconti relativi a scandali e pettegolezzi, e di creduloneria, dando per buone fonti orali a distanza di secoli dai fatti, non verificate né verificabili, che diedero origine ad alcuni macro-errori (come l’inverosimile assassinio di Domenico Veneziano da parte di Andrea del Castagno), che screditarono in parte l’opera vasariana agli occhi della critica moderna. La maggior parte degli aneddoti, pur essendo descritta come realmente accaduta, è più probabilmente frutto di fantasia, se non pura invenzione letteraria.  Altre volte il Vasari si documentò scrupolosamente, spulciando gli archivi e le rare fonti su fatti artistici a lui anteriori.

Il Vasari incluse un’autobiografia di 42 pagine alla fine delle Vite e aggiunse ulteriori dettagli su di sé e sulla sua famiglia nelle vite di Lazzaro Vasari e di Francesco Salviati.

FIORENTINO-CENTRICO

Vasari era aretino, ed era al servizio del duca di Firenze Cosimo I de’ Medici. Una delle pecche rilevate della sua opera è sicuramente quella di enfatizzare eccessivamente il ruolo degli artisti toscani, e in particolare fiorentini, nell’evoluzione della storia dell’arte. Tese infatti ad attribuire a essi tutte le nuove scoperte dell’arte rinascimentale, come ad esempio l’invenzione dell’incisione. A volte lodò artisti non toscani attribuendo però loro un fantomatico discepolato presso un fiorentino, come nel caso del veronese Pisanello riferito come alunno di Andrea del Castagno.

L’arte veneziana, in particolare, fu completamente ignorata nella prima edizione e solo dopo un viaggio a Venezia il Vasari le dedicò più attenzione (includendo infine tra gli artisti anche Tiziano), senza tuttavia tenere un punto di vista sufficientemente obiettivo. Ai fiorentini riservò il “primato del disegno”, mentre ai veneziani quello “del colore”, una distinzione molto acuta, tenuta in conto ancora oggi, seppure debitamente calibrata.

Meno considerate ancora furono le altre scuole pittoriche, relegate a un sostanziale oblio fino al XIX secolo. Lombardi, emiliani, marchigiani, romani, napoletani, siciliani, ecc. sono regolarmente sottostimati, se non del tutto ignorati. Nella visione artistica di Vasari tutto aveva inizio col fiorentino Cimabue, primo ad aver rotto le catene della “goffa, scabrosa” maniera greca, e finiva col fiorentino Michelangelo, il genio sublime che aveva eccelso in tutte le discipline e che le aveva riportate ai fasti dell’antichità, superando anche i mitici artefici del mondo classico.

LE TRE PARTI

Vasari ha una visione essenzialmente ottimistica dello sviluppo storico, diversa ad esempio da un Machiavelli che vede nella storia attuale una decadenza dall’antica età aurea della libertà e dignità repubblicana.

Per il Vasari il presente è l’epoca che ha prodotto il più grande artista vivente, Michelangelo, il culmine e la corona del progresso. Naturalmente si intuisce il pensiero epigonico della discesa inevitabile, successiva a Michelangelo.

L’immagine della crescenza e della fioritura, Vasari l’aveva certamente presa dagli antichi pensatori. Le tre età che Vasari definisce (dette anche maniere) dividono l’opera in tre parti, che sono poi i tre periodi del Rinascimento, i soli che Vasari vuole rappresentare. Vasari segue una idea più antica, già usata dagli umanisti e dal Ghiberti, quella dell’arte “rinata”, morta dalla fine dell’antichità, perchè quella del Medioevo non si può considerare arte nel senso del Rinascimento, cioè arte dello spazio e dominio dell’immagine naturale. Così la sua esposizione ha una divisione naturale:

– Primo periodo e prima parte delle Vite. Contiene i princìpi e l’infanzia, che timidamente si affaccia liberandosi dalle caricature del medioevo. Cimabue, i Pisani, Giotto, Arnolfo, e così via fino alla fine del Trecento.

– Secondo periodo e seconda parte delle Vite. Contiene la gioventù e la preparazione: da Jacopo della Quercia, Masaccio, Donatello, Ghiberti e Brunelleschi fino alla fine del Quattrocento. Qui la piena naturalezza è raggiunta solo dopo faticosi studi anatomici e prospettici; la perfezione stilistica è raggiunta per mezzo della regolarità ma tutto ciò non è ancora fuso in un unico blocco armonico. Sono opere di maniera secca, ancora attaccate al modello; gli artisti danno soltanto quello che vedono e niente di più

– Terzo periodo e terza parte delle Vite. Il pieno sviluppo. Tempo della fioritura. Età dell’oro che trova il suo apice con Leone X. Il Cinquecento. Ecco i grandi nomi di Giorgione, Tiziano, Andrea del Sarto, Fra Bartolomeo e soprattutto la triade per eccellenza già indicata dal Giovio: Leonardo, Raffaello e Michelangelo.

 

VASARI ARCHITETTO

Vasari fu uno dei più importanti architetti del 500 attivo principalmente a Firenze sotto la protezione di Cosimo I
I suoi cantieri più importanti furono a Firenze e in Toscana, tra cui spiccano la costruzione degli Uffizi, la ristrutturazione di Palazzo Vecchio

La Galleria degli Uffizi

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L’edificio ospita una superba raccolta di opere d’arte inestimabili, derivanti, come nucleo fondamentale, dalle collezioni dei Medici, arricchite nei secoli da lasciti, scambi e donazioni, tra cui spicca un fondamentale gruppo di opere religiose derivate dalle soppressioni di monasteri e conventi tra il XVIII e il XIX secolo. Divisa in varie sale allestite per scuole e stili in ordine cronologico, l’esposizione mostra opere dal XII al XVIII secolo, con la migliore collezione al mondo di opere del Rinascimento. Al suo interno sono ospitati alcuni fra i più grandi capolavori dell’umanità, realizzati da artisti che vanno da Cimabue a Caravaggio, passando per Giotto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello,Mantegna, Tiziano, Parmigianino, Dürer, Rubens, Rembrandt, Canaletto e Sandro Botticelli. Di grande pregio sono anche la collezione di statuaria antica e soprattutto quella dei disegni e delle stampe che, conservata nel Gabinetto omonimo, è una delle più cospicue ed importanti al mondo fu ordinata nel 1560 da Cosimo I de’ Medici, primo Granduca di Toscana, per accogliere gli “uffizi”, cioè gli uffici amministrativi e giudiziari di Firenze. Alla data dell’inizio della costruzione, l’egemonia dei Medici era ormai consolidata e il loro potere si accentrava, anche materialmente, fra le mura del palazzo.
Cosimo incaricò dell’impresa il suo artista di fiducia, Giorgio Vasari, che progettò l’edificio dalla forma ad U così come possiamo ammirarlo ancora oggi, con il portico a colonne doriche e l’aspetto insieme elegante e severo. Il grande architetto costruì anche il Corridoio, che da lui prende il nome, che unisce, attraverso gli Uffizi, Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti, passando su Ponte Vecchio e attraversando la chiesa di Santa Felicita e numerosi edifici adiacenti prima di sbucare nel Giardino di Boboli. Per costruire gli Uffizi e creare spazio per l’imponente edificio, furono demolite molte costruzioni che si trovavano sulla riva destra dell’Arno, a monte del Ponte Vecchio. Qui era sorto infatti già in epoca romana un quartiere portuale – il fiume era navigabile – che prendeva il nome da un locale, popolare e malfamato: la taverna di Baldracca. La costruzione dell’edificio delle Magistrature, come all’inizio era denominato, servì anche a dare un volto nuovo a questo lembo di città. Dal lato di Piazza Signoria l’antica chiesa romanica di San Pier Scheraggio, luogo dove i primi fiorentini del libero Comune si radunavano nel ‘200, non venne abbattuta, bensì inglobata nella nuova muratura vasariana, mantenendo la sua funzione sacra fino al ‘700.
Gli Uffizi furono completati dopo la morte di Vasari (1574) e di Cosimo I da un altro grande architetto, Bernardo Buontalenti, e da un altro granduca, il colto e raffinato Francesco I de’ Medici. Si deve a lui la creazione della Galleria, allestita nel 1581 al secondo piano dell’edificio. Le collezioni da quel momento si sarebbero ampliate sempre più, arricchite continuamente con nuove acquisizioni da tutti i membri della dinastia. Oltre alle opere d’arte antiche e moderne furono accumulate gemme, armi e perfino strumenti scientifici, fra i quali quelli appartenuti a Galileo Galilei, conservati con reverenza nell’apposito Camerino delle Matematiche.
Tutto questo enorme patrimonio avrebbe potuto andare disperso alla metà del XVIII secolo, quando si estinse il ramo principale dei Medici. Ma l’ultima discendente diretta dell’antica stirpe dei grandi banchieri fiorentini, Anna Maria Luisa de’ Medici, impose al nuovo granduca designato dalle potenze europee il famoso Patto di Famiglia, col quale nel 1737 legava per sempre l’eredità medicea a Firenze “per l’ornamento dello Stato, per l’utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei forestieri”, corredando il documento con l’inventario completo e minuzioso di tutte le collezioni.
La Galleria fu aperta al pubblico nel 1789 dal granduca Pietro Leopoldo, il più illuminato ed importante membro della casa austriaca degli Asburgo-Lorena, nuova dinastia alle redini del Granducato di Toscana fino all’unificazione d’Italia.

IL CORRIDOIO VASARIANO

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Il corridoio Vasariano è un percorso sopraelevato che congiunge due dei più importanti edifici fiorentini, Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti. Il tempo impiegato dal Vasari per costruirlo ha del miracoloso: furono infatti solo cinque i mesi nel 1565 che ci vollero per collegare quei due centri del potere con un corridoio lungo quasi un chilometro. L’occasione fu quella del matrimonio tra Francesco, il figlio del granduca Cosimo I de’ Medici, committente dell’opera, e Giovanna d’Austria. Le motivazioni di una simile costruzione, che attraversa l’Arno in prossimità del Ponte Vecchio, vanno ricercate nella situazione ancora instabile della politica nel tempo: era infatti necessario che i nobili potessero spostarsi tra le residenze senza correre rischi, visto che Cosimo I aveva nei fatti abolito le istituzioni repubblicane da Firenze e ne era diventato il sovrano pressoché assoluto, circostanza che ancora causava il malumore tra parti non minoritarie della popolazione. Se oggi sul Ponte Vecchio ci sono le celebri botteghe degli orafi, la causa è anche del corridoio Vasariano: anticamente infatti il ponte ospitava il mercato della carne, ma il cattivo odore che ne scaturiva era sgradito al Granduca, che lo fece quindi spostare. Il percorso del corridoio Vasariano inizia da Palazzo Vecchio e arriva agli Uffizi oltrepassando con un ponte sopraelevato Via della Ninna; poi segue il tracciato delle gallerie situate all’ultimo piano, sbuca dagli Uffizi con un arco, percorre il Lungarno degli Archibusieri e poi gira sopra Ponte Vecchio, attraversando l’Arno. A questo punto il corridoio fa un giro intorno alla Torre de’ Mannelli, un edificio che non si poté abbattere durante la costruzione dell’opera per via della strenua resistenza che pose la famiglia proprietaria. Superata la Torre, il corridoio oltrepassa via de’ Bardi, entra nella Torre degli Obriachi, attraversa con un altro arco piazza Santa Felicita (passando di fronte all’omonima chiesa) e, passando per Boboli, arriva fino a Palazzo Pitti. In quanto parte a tutti gli effetti del Museo degli Uffizi, ospita una pinacoteca di rara bellezza. I dipinti ospitati sono in gran parte autoritratti di artisti di ogni epoca, da Andrea del Sarto a Guttuso passando per Chagall: la collezione venne inaugurata da Leopoldo de’ Medici nel diciassettesimo secolo ed è ad oggi la più completa collezione del genere in Europa. In secondo luogo, il corridoio è, di per sé, un’opera architettonica di sicuro interesse, frutto del genio rinascimentale. L’atmosfera è quasi surreale, con il suo estremo silenzio, e il distacco con la folla degli Uffizi è sicuramente affascinante. Uno dei punti panoramici più belli di tutta Firenze è sicuramente quello che si può godere proprio dal corridoio Vasariano nel tratto in cui attraversa Ponte Vecchio: qui Mussolini nel 1939 fece realizzare alcune finestre panoramiche per l’occasione della visita di Adolf Hitler, e pare che Ponte Vecchio sia stato risparmiato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale proprio per la vista straordinaria che il dittatore tedesco poté ammirare dalle sue finestre.Di notevole interesse è poi l’affaccio sulla già citata chiesa di Santa Felicita, una finestra con grate di ferro che permetteva ai Medici di assistere alla Messa senza doversi mischiare col popolo. Il terzo motivo per visitare il corridoio è quindi quello panoramico, con la sensazione inimitabile di vedere quello che vedevano i Medici quando, camminando sopra le teste dei loro sudditi, li potevano osservare senza essere visti a loro volta.

PALAZZO VECCHIO

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Palazzo Vecchio si trova in piazza della Signoria a Firenze ed è la sede del comune della città.
Chiamato in origine “Palazzo dei Priori, divenne nel XV secolo “Palazzo della Signoria”, dal nome dell’organismo principale della Repubblica fiorentina; nel 1540 divenne Palazzo Ducale, quando il duca Cosimo I de’ Medici ne fece la sua residenza; infine gli fu attribuito l’aggettivo ”Vecchio” nel 1565 quando la corte del Duca Cosimo si spostò nel “nuovo” Palazzo Pitti. Fra il 1540 e il 1550 fu la casa di Cosimo I de’ Medici, il quale incaricò il Vasari di allargare ulteriormente il palazzo per assecondare le necessità della corte ducale. Il palazzo raddoppiò così il proprio volume per effetto delle aggiunte sulla parte posteriore.

Salone dei cinquecento

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Il salone dei Cinquecento è uno dei più ampi e preziosi saloni in Italia. Questa sala imponente ha una lunghezza di 54 metri ed una larghezza di 23. Fu costruita nel 1494 da Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, su commissione di Savonarola che, rimpiazzando i Medici alla guida di Firenze, la volle come sede del Consiglio maggiore, appunto di 500 membri. Fu in seguito allargata da Vasari, così che Cosimo I potesse far corte in questo salone. Durante la trasformazione (1555-1572) non è chiaro se i famosi dipinti incompleti de La battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci e La battaglia di Cascina di Michelangelo vennero coperti o distrutti.Il soffitto è realizzato con 39 pannelli costruiti e dipinti da Vasari e dalla sua bottega, rappresentanti “Importanti episodi della vita di Cosimo I”, i quartieri della città e la città stessa, con al centro l’apoteosi rappresentante: “Scena di glorificazione come gran duca di Firenze e di Toscana”.

Studiolo di Francesco I

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Alla fine della sala è stata realizzata una piccola stanza laterale senza finestre. Questo capolavoro, lo Studiolo o Studio di Francesco I de’ Medici, fu anch’esso progettato da Vasari e realizzato in stile manieristico (1570-1575). Le pareti e le volte sono completamente coperte da dipinti, stucchi e sculture. Molti dipinti sono della scuola del Vasari e rappresentano i quattro elementi: acqua, terra, aria e fuoco. I ritratti di Cosimo I e di sua moglie Eleonora di Toledo furono dipinti da Alessandro Allori, allievo prediletto del Bronzino. Le delicate sculture in bronzo sono state realizzate dal Giambologna e Bartolomeo Ammannati. Smontate da decenni, sono state ricostruite solamente nel XX secolo.

GIAMBOLOGNA

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Giambologna, pseudonimo di Jean de Boulogne (Douai, 1529 – Firenze, 13 agosto 1608), è stato uno scultore fiammingo attivo in Italia, in particolare a Firenze. svolse il suo apprendistato presso la bottega dello scultore Jean Dubroeucq, Questa prima fase dell’educazione artistica dello scultore era forse poco nota anche ai suoi principali biografi,Raffaello Borghini e Filippo Baldinucci, i quali attribuirono maggiore importanza al soggiorno di Giambologna a Roma, dove egli arrivò nel 1550 per studiare le statue antiche nelle collezioni private e le opere dei moderni, in particolare quelle di Michelangelo. secondo quanto riportato, l’artista vi rimase solo un paio d’anni, trascorsi in larga parte a esercitarsi realizzando numerosi modelli di terra e di cera; uno di questi sarebbe stato sottoposto proprio al giudizio di Michelangelo, il quale però oltre a non mostrare il suo apprezzamento, mortificò il giovane scultore fiammingo riplasmandone le forme. Questo aneddoto, vero o presunto che sia, non è da considerarsi totalmente privo di fondamento perché oltre a rivelare un’abitudine ricorrente nella produzione del Giambologna fin dai suoi esordi (l’abbozzatura di modelli anziché la più diffusa pratica del disegno nella progettazione delle opere) mette in evidenza quella che sarà una componente essenziale nello sviluppo del suo linguaggio, ossia il rapporto con il grande maestro fiorentino. Egli forse non conobbe mai di persona Michelangelo, ma la sua arte lo impressionò a tal punto da spingerlo all’emulazione e in seguito al superamento dei suoi modelli; egli costituì sempre il termine di confronto con cui misurarsi e senza limitarsi alla passiva imitazione di schemi predefiniti. Nelle sue opere vi è una forte propensione alla tensione dinamica delle figure di chiara ispirazione michelangiolesca, ma Giambologna divenne il più importante scultore manierista a Firenze per l’originalità della sua produzione, fatta di statue di marmo e bronzi di grandi e piccole dimensioni, che seppero conquistare il gusto e l’apprezzamento di committenti esigenti, come erano quelli raccolti intorno alla corte medicea granducale. Nel 1552 Giambologna si trasferì a Firenze, trovando ospitalità e protezione nella casa di Bernardo Vecchietti, uomo colto, raffinato e grande collezionista, per il quale egli eseguì le sue prime opere fiorentine, tra cui una Venere in marmo andata perduta, ma della quale esiste un modellino in bronzo conservato al Museo Nazionale del Bargello, in cui si vede la dea inginocchiata nell’atto di asciugarsi. L’amicizia con il nobile fiorentino fu decisiva per Giambologna perché fu proprio lui a introdurlo nella corte medicea, presentandolo al futuro granduca Francesco I. La sua ascesa fu comunque piuttosto lenta perché al momento del suo arrivo in città erano molte le personalità di spicco che si contendevano le committenze granducali; Baccio Bandinelli godeva del favore di Cosimo I e della moglie Eleonora di Toledo e Benvenuto Cellini conobbe il suo momento di massima gloria quando nel 1554 terminò il Perseo con la testa di Medusa, posto sotto le arcate della Loggia della Signoria. Inizialmente quindi Giambologna dovette accontentarsi di commissioni non di primo piano; nel 1559 scolpì lo stemma mediceo posto sulla scalinata del Palagio di Parte Guelfa, che Giorgio Vasari stava ristrutturando in quel periodo e l’anno successivo realizzò un rilievo in alabastro destinato al principe Francesco, raffigurante l’Allegoria di Francesco I,.Al 1560 risale anche il Bacco del Bargello, primo bronzo monumentale dell’artista eseguito per Lattanzio Cortesi e nello stesso anno prese parte al concorso per la Fontana di Nettuno in piazza della Signoria indetto da Cosimo I, poi realizzata da Bartolomeo Ammannati; pur consapevole di avere scarse probabilità di vittoria, Giambologna sapeva che si trattava di un’ottima occasione per mettere in luce le sue capacità e in effetti il suo modello venne giudicato molto positivamente.A seguito dell’impresa egli ricevette il primo incarico di prestigio da parte di Francesco I, il gruppo in marmo con Sansone e il filisteo, che negli anni settanta venne trasferito nel cortile del Casino di San Marco e posto su una fontana dotata di un piedistallo. L’opera riprende chiaramente i modelli michelangioleschi per la forte tensione dinamica delle figure in lotta e la pluralità di vedute offerta dalla scultura, ma mostra anche la sua spiccata tendenza al naturalismo, che lo rese molto abile nella rappresentazione di animali. Nel 1563 Giambologna venne chiamato a Bologna per realizzare la figura del dio Nettuno da collocare sulla monumentale fontana di Piazza Nettuno che rientrava nel programma di rinnovamento urbanistico voluto per la città da papa Pio IV. La statua poggia su di un alto basamento che accentua lo slancio e la dinamicità conferita al dio dallo scultore, che lo raffigurò con una mano stesa nell’atto di calmare le acque.

Il ratto delle sabine

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L’opera di Giambologna più famosa è sicuramente il ratto delle sabine (1583) fa parte dell’arredo Granducale della Loggia de Lanzi in piazza della Signoria a Firenze. La statua è alta 4,10 metri e rappresenta un giovane che solleva sopra la sua testa una fanciulla, mentre bloccato fra le gambe del giovane un vecchio si dispera; per questo la statua è anche nota come le tre età dell’uomo. Nel basamento è inserita una placca bronzea con una scena del ratto, in cui le diverse possibili combinazioni fra le figure vengono ripetute in diverse dimensioni e con diverse profondità del rilievo. La statua fu inserita nella Loggia dei Lanzi, insieme a numerose altre, con l’intento da parte del Granduca di snaturare la funzione originale della Loggia, spazio fondamentale delle funzioni di rappresentanza del governo repubblicano, facendone un museo all’aperto. In quella posizione venne inizialmente collocata la Giuditta in bronzo di Donatello. Il significato simbolico e la storia della statua (la giovane ebrea che decapita il tiranno, sorta di David al femminile, era stata sequestrata dal Comune proprio alla famiglia Medici nel corso di una delle tante cacciate che questi subirono) oltre alle sue ridotte dimensioni, ulteriormente accentuate dall’immensa arcata a a tutto sesto sotto cui si veniva a trovare, ne determinarono lo spostamento sull’Arengo di Palazzo Vecchio e la sostituzione (1583) con una scultura di ben altra mole Giambologna realizzò un vero e proprio tour de force tecnico riuscendo a cavare la statua da un sol blocco di marmo, dandole inoltre un andamento estremamente variato, grandi masse e vuoti distribuiti in modo irregolare, ma soprattutto creò la prima statua con punti di vista multipli, invitando lo spettatore a crearsi un percorso a spirale per osservare l’opera da tutte le molteplici angolazioni significative. Nel Museo dell’Accademia è conservato il modello originale in “terra cruda”. La statua, esposta agli agenti naturali e ai vandali è andata incontro a deterioramento da smog e cancro del marmo, che hanno reso necessario un ciclo di restauri. La statua è stata quindi sottoposta a restauro nel 2001 e da allora le sue condizioni di conservazione sono state monitorate. Nel 2007 ci si è accorti della risposta non pienamente soddisfacente del marmo rispetto agli agenti atmosferici, nonostante una sostanza protettiva applicata alla statua. Nel 2008 è terminato un ciclo di studi che, secondo il parere quasi unanime dei tecnici potrebbe portare alla musealizzazione dell’opera, il che lascerebbe un grave vuoto nella scenografia di piazza della Signoria; i tecnici sono però riluttanti a provvedere semplicemente alla sostituzione con una copia poiché ciò potrebbe portare in breve allo spopolamento del museo all’aperto della piazza, con la creazione di una sorta di museo virtuale in cui tutte le statue sarebbero sostituite da anodine copie. Lo spostamento, che viene dato per inevitabile, dovrebbe portare l’opera nella Galleria dell’Accademia (quindi insieme o al posto del modello originale in “terra cruda”) o a Palazzo Vecchio.

Le Ville Fiorentine

Durante il Manierismo, Firenze fu coinvolta in un fenomeno urbanistico, già riscontrato in altri dintorni di città come Venezia, Roma, Genova, il quale consiste nella costruzione di magnificenti residenze nei territori limitrofi al centro abitato. Lo sviluppo della villa extraurbana raggiunge nel capoluogo toscano, sotto Cosimo I, il suo apice, diventandone la testimonianza esemplare della straordinaria evoluzione del fenomeno dal Rinascimento al Manierismo. Le costruzioni, immerse nella più fertile natura, di proprietà della famiglia dei Medici, talvolta acquistate, altre sequestrate, circondano la città come formando una corona. Le diciotto ville, consolidamento del potere della famiglia originaria del Mugello, presentano caratteristiche simili anche se risentono fortemente dell’impronta caratteriale del personaggio per cui sono state commissionate e le sue esigenze. Queste sono il luogo di incontro e di lavoro degli architetti e degli scultori più in vista del periodo, troviamo infatti nomi come quello di Niccolò Pericoli, Bartolomeo Ammannati, Bernardo Buontalenti e Giambologna, che non si sbizzarriscono tanto sull’edificio, che difatti risulta semplice ed austero, quanto nello spazio esterno. Nel cortile-giardino trovano espressione infatti tutto l’estro e la genialità degli artisti sopracitati attraverso suggestivi giochi d’acqua, sorprendenti architetture, grotte artificiali e sculture il qui filo conduttore è la perfetta commistione di natura e artificio. Giusto Utens, pittore fiammingo trasferitosi a Carrara nel 1580, realizzò fra il 1599 e il 1602, su ordine dei Medici, 17 lunette raffiguranti altrettante ville. Rimaste oggi solo 14, ornavano inizialmente la sala grande della villa di Artimino come celebrazione del potere mediceo, furono poi spostate prima nel museo di “Firenze com’era” e, in seguito alla chiusura di quest’ultimo e ad un restauro, nella villa La Petraia dove si trovano tutt’oggi.

Giambologna e villa Demidoff

La villa di Pratolino, acquistata da Francesco I de’ Medici nel 1568, fu demolita nel 1822 e parzialmente riedificata adibendo a nuova dimora nobiliare l’edificio delle Paggerie, prendendo il nome di villa Demidoff, dall’omonima famiglia russa. Nel parco, oramai spogliato, grazie al capolavoro di Giambologna, è forse uno dei migliori esempi di quella commistione citata poc’anzi.  Quest’opera non è altri che il “Colosso dell’Appennino”, titanica scultura, 14 metri d’altezza, raffigurante un gigante antropomorfo, modellata come roccia nella roccia che si fonde con l’ambiente circostante per diventare tutt’uno con la natura. Sotto la sua mano si trova una delle molteplici grotte artificiali che risiedono nel parco, questa di forma esagonale, che conduce alla parte alta della statua. All’intero la luce filtra attraverso gli occhi del colosso.

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Il “Colosso dell’Appennino” nel parco di villa Demidoff

 

 

Bernardo Buontalenti

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Ritratto di Bernardo Timante Buonacorsi, anche detto Bernardo Buontalenti

Bernardo Buontalenti, nato a Firenze nel 1531, è stato un architetto, scultore, pittore, ingegnere militare e scenografo italiano, che con la sua lunga ed operosa attività presso la corte granducale fiorentina, fu uno degli artisti più importanti ed influenti della seconda metà del Cinquecento e personaggio chiave dell’epoca del manierismo fiorentino, fortemente legata alla personalità di Michelangelo ed in genere al Rinascimento toscano, a lui furono affidate opere estremamente importanti come il giardino di Boboli e alcune delle ville, fra cui quella di Pratolino. Rimasto illeso in giovane età da una frana in Costa San Giorgio vide però travolte la sua casa e la sua famiglia, entrò fin da ragazzo al servizio della corte granducale e divenne allievo del Vasari e del pittore Salviati. Innamoratosi dell’architettura di Michelangelo e delle opere di Ammannati ebbe una formazione eccezionalmente completa che gli permise di estendere le sue competenze anche alla scenografia. Ancora giovane ebbe l’onore di partecipare agli allestimenti effimeri per le onoranze pubbliche di Michelangelo, collaborò poi con Niccolò Tribolo e Vasari ai più importanti cantieri granducali in cui, dopo la loro morte, subentrerà, sovraintendendo al completamento, di opere come gli Uffizi e del complesso di Palazzo Pitti e giardino di Boboli. Intorno al 1564 fu tra i collaboratori di Baldassarre Lanci nell’edificazione di Terra del Sole, completando la sua formazione con la conoscenza della fortificazione alla moderna a cui si era appassionato talmente tanto che Vasari sembra rimproverarglielo, avendo trascurato la pittura in cui ben prometteva. Stringerà uno stretto sodalizio intellettuale con Fracensco I, sintonia che gli frutterà grandi commissioni come il palazzo di Bianca Cappello e la villa di Pratolino. Succederà poi a Vasari, dopo la sua morte nel 1574, come architetto di corte e non solo, si occuperà anche della vita mondana e degli intrattenimenti, è a lui attribuita l’invenzione del gelato in occasione del banchetto per le nozze di Maria de’Medici. Sarà proprio durante questo mandato che Buontalenti realizzerà uno degli ambienti più pregevoli dei giardini di Boboli: grotta del Buontalenti o grotta Grande. Quest’opera, composta da tre stanze, fu iniziata da Vasari che ne ha realizzato la parte inferiore della facciata, è un capolavoro unico, magistrale connubio tra architettura, scultura e pittura, qui vi saranno custoditi i Prigioni di Michelangelo fino al 1924. L’esterno della grotta preannuncia l’interno bizzarro e sorprendente. È caratterizzato da un ingresso ampio tra due colonne sormontate da architrave, con concrezioni spugnose simili a stalagmiti al di sopra dei capitelli, che sembrano essere colate dall’apertura a lunetta irregolare superiore, dove si trovano analoghe concrezioni simili alle stalattiti tipiche delle grotte.Ai due lati dell’entrata si trovano altrettante nicchie che contengono le statue di Cerere e Apollo di Baccio Bandinelli. Il registro superiore, dominato dal lunettone aperto, è decorato anche da due cornici realizzate a mosaico con ciottoli colorati, entro le quali ci sono stucchi con festoni e capricorni marini. Anche il timpano è decorato dalle concrezioni spugnose su ciascun bordo, mentre al centro si trova lo stemma dei Medici. Lo affiancano poco sotto due figure femminili sdraiate, realizzate a bassorilievo mosaicato.

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Facciata della grotta del Buontalenti, a sinistra della facciata l’uscita del corridoio Vasariano

Prima Stanza

La prima stanza della grotta è molto più ampia delle altre e presenta una decorazione dove elementi pittorici, scultorei e architettonici si fondono dando un senso di meraviglia e smarrimento. Il tema è quello della materia informe, il caos, che attraverso la metamorfosi trova ordine e armonia, un tema legato all’alchimia tanto cara a Francesco I. Dalle pareti infatti le rocce, le stalattiti, le spugne, le conchiglie sembrano prendere vita, componendosi in figure antropomorfe e zoomorfe scolpite dallo stuccatore Pietro Mati. Agli angoli ben si armonizzano i quattro Prigioni di Michelangelo (oggi sostituiti da copie), che essendo scolpiti solo a metà sembrano emergere dalla roccia informe con vigore. Solo in un secondo momento l’immagine si ricompone come la scena di una grotta naturale nella quale si rifugiano i pastori (realizzati sia a stucco sia ad affresco) per difendersi dagli animali selvatici.Le pitture ad affresco di Bernardino Poccetti si fondono mirabilmente agli altri elementi, proseguendo fino al soffitto che è decorato come un pergolato illusionistico con un oculo aperto al centro dal quale filtra la luce.Un elemento che oggi non si può più apprezzare è quello legato ai giochi d’acqua, dei quali sono state ritrovate diverse tracce durante il generale restauro conclusosi a fine degli anni novanta: in quell’occasione venne alla luce la miriade di canalini in terracotta dai quali gocce d’acqua scendevano dal soffitto creando uno spettacolo vibrante di luci e riflessi, prima di convogliare nelle vasche vicine alle pareti. Sull’oculo del soffitto era presente una vasca con pesci, mentre al centro della stanza resta ancora una fontana con una roccia che anticamente trasudava acqua.

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Veduta interna della prima stanza della grotta del Buontalenti

Seconda Stanza

Nella seconda stanza, allineata tra la prima e la terza e di grandezza minore, si ritrovano le analoghe decorazioni con stalattiti e conchiglie e affreschi. Sulle pareti laterali sono dipinte Giunone e Minerva entro due nicchie illusionistiche con timpano. Al centro di questa stanza è ospitato il gruppo marmoreo di Paride che rapisce Elena (o Teseo e Arianna) di Vincenzo de’ Rossi.

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Seconda stanza, particolare “Paride che rapisce Elena”

 Terza Stanza

L’ultima stanza è pure allestita come una grotta, con un cielo fittizio nel quale volano degli uccelli. La stanza è dominata dalla fontana della Venere che esce dal bagno del Giambologna, che si erge al di sopra della vasca marmorea sulla quale si arrampicano quattro satiri maliziosi che la insidiano spruzzandole acqua addosso. Il complesso delle decorazioni può anche essere letto secondo un tema erotico che, sebbene sublimato dalla mitologia e dallo schema filosofico, è fin troppo evidente agli occhi smaliziati di un visitatore moderno: nella prima stanza le vittime venivano stordite dal senso del magnifico e del grottesco, nella seconda il tema della bellezza rapita favoriva i tentativi di approccio, mentre nella terza stanza la nudità perfetta di Venere poteva dare lo spunto per un confronto diretto.

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Veduta interna della terza stanza della grotta del Buontalenti

Palazzo Pitti

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Facciata di palazzo Pitti

Palazzo Pitti è il più grandioso dei palazzi fiorentini ed è un’eccellente testimonianza della potenza delle dinastie che la scelsero come propria reggia di rappresentanza. Il palazzo esisteva già nel 1461 ed era stato fatto costruire da Luca Pitti, un ricco mercante fiorentino che aveva voluto la nuova casa adiacente a quella dove la famiglia abitava da tempo e comunicante con essa. L’originario edificio quattrocentesco consisteva in un blocco squadrato di tre piani, con una facciata caratterizzata al piano terra da tre portoni alternati a quattro finestre alte; anche la profondità era minore dell’attuale, non esistendo ancora il loggiato tergale con i due piani superiori. Luca morì nel 1473 lasciando il palazzo incompiuto; esso rimase alla famiglia Pitti fino al 1550, quando fu venduto insieme al resto della proprietà a Eleonora di Toledo, sposa di Cosimo I dei Medici. Dopo aver vissuto nel palazzo dei Medici di via Larga e successivamente a Palazzo Vecchio, i duchi decisero di utilizzare Palazzo Pitti come residenza occasionale e luogo di rappresentanza per accogliere e stupire i propri ospiti. Il palazzo divenne così la principale residenza dei Medici, senza cambiare di fatto nome, e dando origine alla straordinaria rinascita del quartiere di Oltrarno, via via che le nobili famiglie della città imitarono i granduchi facendo a gara a costruire residenze nobiliari sulle appena tagliate Via Maggio o Via dei Serragli. Nel 1560 fu realizzato il primo ampliamento del palazzo ad opera di Bartolomeo Ammannati, che edificò, tra l’altro, l’imponente cortile a più piani con l’originale e senza precedenti motivo dei gradoni alternati lungo tutte le superfici.

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Planimetria del giardino di Boboli della fine del XVIII secolo

Il cortile fece talvolta da scenografia a straordinari eventi, come una battaglia navale tra venti navi turche e cristiane o i festeggiamenti per le nozze tra Ferdinando I de’ Medici e Cristina di Lorena nel 1589. La sistemazione dei giardini era già stata iniziata nel 1551 da Niccolò Tribolo. Il disegno originale dei giardini era incentrato su un anfiteatro centrale, che venne realizzato sfruttando la conformazione naturale della collina, dove frequentemente vennero rappresentate commedie e tragedie di ispirazione classica, come alcune scritte da Giovan Battista Cini, mentre le scenografie erano curate dall’architetto di corte Baldassarre Lanci. Tra il 1558 e il 1570 Ammannati creò uno scalone monumentale per il piano nobile, e ampliò le ali posteriori del palazzo, verso il giardino, abbracciando così il cortile e chiudendolo sul lato ovest da un corpo sovrastato da una terrazza alla quale si accedeva dagli appartamenti nobiliari del primo piano. Da questo punto di vista si fronteggiava la collina di Boboli a pari altezza, dominando il declivio. Sulla terrazza fu posta anche una grande fontana, in seguito chiamata (1641), fontana del Carciofo, disegnata dall’assistente di Giambologna, Giovanni Francesco Susini. Nel cortile interno fu realizzata più tardi una stravagante grotta con concrezioni calcaree e statue di puttini che nuotano nella vasca chiamata Grotta di Mosè. Dal 1616 fu lanciato un concorso per ampliare la parte del palazzo sulla piazza, vinto da Giulio Parigi, nipote dell’Ammannati, che condusse i lavori di allungamento del corpo della facciata dal 1618, terminati da Alfonso Parigi, suo figlio, nel 1631. Nel Settecento Giuseppe Ruggeri aggiunse le due ali laterali che abbracciano la piazza, un tipo di corte d’onore di ispirazione francese. Sporadiche aggiunte e modifiche vennero spesso operate dai vari occupanti del palazzo ad opera di altri architetti. Nel 1696 Cosimo III fece aggiungere sulla facciata la Fonte del Leone, ornata dalla corona granducale medicea.

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Veduta del giardino di Boboli da palazzo Pitti

IL Manierismo a Roma

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Il più importante centro di elaborazione della fase tarda più moderata della Maniera fu ancora una volta Roma, negli anni della ripresa delle grandi commissioni artistiche prima con papa Paolo III Farnese, che riportò la città agli antichi fasti, e poi con papa Giulio III del Monte(1550-55). Per Paolo III Michelangelo progettò il Campidoglio e concluse il Giudizio Universale e la Basilica di San Pietro; per lui lavorarono Vasari, Salviati e anche Tiziano. Fu però proprio con Paolo III che intorno alla metà del secolo avvenne un cruciale cambiamento artistico e culturale, legato alla cosiddetta Controriforma: fu infatti papa Farnese a indire, nel 1545, il Concilio di Trento, che orienterà nuovamente in un senso assai più austero la Chiesa cattolica e attribuirà alle gerarchie ecclesiastiche un rigoroso controllo sulle arti figurative. Fu l’inizio di una svolta che porterà alla fine della Maniera: obiettivo ultimo di pittura e scultura non sarà più, dopo il Concilio, il conseguimento di un bel risultato estetico combinando gli stili dei grandi maestri; sarà invece la ricerca di immagini sobrie, solenni e decorose, in grado di suscitare devozione nello spettatore.

Il sistema delle ville

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Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio

Paolo III si connota quindi come il primo pontefice della Controriforma, anche se le sue molte committenze profane lo classificano, allo stesso tempo, come l’ultimo dei grandi papi mecenati del Rinascimento(Giulio II, Leone x e Clemente VII). Numerosi interventi furono rivolti a enfatizzare il prestigio della sua famiglia, per cui fece edificare un grande palazzo cittadino(progettato da Antonio da Sangallo e Michelangelo) e prestigiose residenze suburbane: verso la metà del secolo, intorno a Roma, prese infatti il via la creazione di una rete di sontuose dimore di campagna. l modelli di ispirazione furono numerosi: oltre alle descrizioni antiche delle lussuose ville della Roma imperiale, Ie ville medicee di Firenze e Roma(tra cui Villa Madama), ma anche la già citata Farnesina (progettata dal Peruzzi per Agostino Chigi e acquista dai Farnese nel 1580) e la residenza papale del Belvedere e dopo gli interventi di Donato Bramante, il mantovano Palazzo Te e la reggia di Fontainebleau. Altri autorevoli esempi di riferimento furono il genovese Palazzo Doria (posto fuori mura, tra orti e giardini) e la Villa imperiale di Pesaro, costruita da un allievo di Baldassarre Peruzzi. Un intervento più complesso, a scala urbanistica, si riconosce nel Palazzo Farnese a Caprarola, simbolo del potere feudale del potente casato romano e della sua splendida corte, che, per la presenza di letterati, intellettuali, musici e artisti, fu uno degli episodi più fulgidi dell’Italia del tardo Rinascimento.  Due degli architetti protagonisti in questo periodo furono certamente Jacopo Barozzi da Vignola e Pirro Ligorio.

Jacopo Barozzi da Vignola

 

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Jacopo Barozzi da Vignola, detto comunemente Il Vignola (Vignola, 1º ottobre 1507 – Roma, 7 luglio 1573), è stato un architetto, teorico dell’architettura e trattatista italiano.
Fu uno degli esponenti più importanti del Manierismo, in un’epoca di importanti cambiamenti di cui fu protagonista e artefice. Il suo primato nella cultura architettonica è dovuto sia alla realizzazione di edifici di grande eleganza, sia all’opera di trattatista soprattutto per aver definito con estrema chiarezza il concetto di Ordine architettonico nella sua celebre Regola delli Cinque Ordini d’Architettura, uno dei trattati architettonici più influente e diffuso di tutti i tempi.Formatosi a Bologna come pittore e prospettico. L’arte del disegno lo portò ben presto ad interessarsi all’architettura.La sua formazione si completò a Roma negli anni trenta del Cinquecento dove ebbe modo anche di collaborare con Baldassarre Peruzzi al cantiere del Belvedere.
Fu in seguito (dal 23 aprile 1541 a circa il 23 dicembre 1543), in Francia come assistente del Primaticcio nel cantiere della reggia di Fontainebleau. Dopo un breve periodo a Bologna nel 1550 si trasferì definitivamente a Roma. Divenne l’architetto dei Farnese e lavorò prevalentemente per essi per oltre vent’anni, raggiungendo un grande successo professionale. Assunse anche l’incarico, dopo la morte di Michelangelo nel 1564, di architetto capo della basilica di San Pietro in Vaticano.
Per papa Giulio III lavorò a Villa Giulia (dal 1550), rielaborando precedenti progetti. Contemporaneamente, tra il 1551 e il 1553, costruì il tempietto a pianta quadrata con cupola ovale di Sant’Andrea.
Nel 1562 il Vignola pubblica il trattato intitolato Regola delli cinque ordini d’architettura che ebbe larghissima diffusione in tutta l’Europa fino all’Ottocento. Si ritiene che l’origine di questo trattato sia da ricercare negli studi e nei disegni, ora perduti, che egli eseguì a Roma per l’Accademia vitruviana della Virtù.
Il Vignola dal 1573 è sepolto al Pantheon di Roma.

Pirro Ligorio

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Pirro nacque a Napoli nel 1513 dalla nobile famiglia Ligorio, e come da consuetudine delle famiglie nobili ricevette un’istruzione, anche artistica, in casa, senza compiere dirette esperienze in botteghe artigiane.
Nel 1534 si trasferì a Roma.Nel 1549 sovrintese agli scavi di Villa Adriana; progettò il suo capolavoro, la Villa d’Este, a Tivoli.Nel 1557 divenne architetto di Paolo IV per il quale iniziò i lavori nella Fontana del Boschetto, nei Giardini Vaticani, per l’erezione dell’edificio che, dal nome del successore Pio IV , sarà chiamato Casino di Pio IV o Villa Pia.
Alla morte di Michelangelo, nel 1564, venne nominato architetto della Fabbrica di San Pietro ma, avendo voluto modificarne il progetto, fu licenziato nel 1568.
Lo stesso anno si trasferì , con la moglie e i figli, a Ferrara, dove era stato nominato antiquario dal duca Alfonso II d’Este. Qui sono pochi i suoi lavori di architettura: la tomba di Ludovico Ariosto, distrutta nel Seicento, e la libreria del duca Alfonso. Disegnò quindi cartoni per arazzi, si occupò degli apparati scenografici in occasione della visita di Enrico III di Francia a Ferrara, e compilò i Quaranta Libri delle Antichità, attualmente divisi e conservati a Torino, Napoli, Parigi, Oxford e Ferrara.
Nella capitale estense, poiché la città con parte dell’area emiliana fu colpita da uno sciame sismico tra il 1570 ed il 1574, vide gli effetti devastanti del terremoto sugli edifici dell’epoca. In tale circostanza ebbe l’intuizione della prima casa edificata con criteri antisismici. Ricevette la cittadinanza ferrarese nel 1580, e tre anni dopo morì.

Ville fastose

Le ville di Roma, costruite per i grandi dignitari ecclesiastici e l’aristocrazia, furono soprattutto fastosi edifici di rappresentanza circondati da magnifici giardini scanditi da filari di bosso, tra aiuole, fontane, statue, secondo l’organizzazione geometrica della natura tipica del giardino all’italiana(tipologia diffusa a partire dal Cinquecento in Italia e nell’intera Europa) Il primo esempio importante, dopo la raffaellesca Villa Madama, è Villa Giulia, residenza suburbana di papa Giulio III, progettata nel 1550-55 da un’equipe di artisti tra cui i toscani Ammannati Vasari e l’emiliano Vignola, reduce da un soggiorno al castello di Fontainebleau.

Villa Giulia

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Il Vasari sostiene di essere stato

“il primo che disegnasse e facesse tutta l’invenzione della Vigna Julia”

, ma la realizzazione e la decorazione furono opera di un nutrito gruppo di artisti, di cui si dice più avanti. Spesso, come ci testimonia il Vasari, i contatti tra il Papa ed il gruppo degli artisti furono tenuti da monsignor Pietro Giovanni Aliotti , vescovo di Forlì e Maestro di Camera di Giulio III.
Come tutte le ville suburbane, Villa Giulia aveva un’entrata urbana (sulla via Flaminia, un’antica via romana) e un giardino formale ma rurale dietro. La villa stessa costituiva la soglia fra due mondi, una concezione essenzialmente romana che è stata adottata in ogni cultura urbana dell’Europa occidentale.Il casino, di cui aveva fornito un progetto anche Michelangelo, fu costruito su progetto di Jacopo Barozzi da Vignola nel 1551 – 1553. Vi hanno lavorato anche Bartolomeo Ammannati, Giorgio Vasari e Michelangelo Buonarroti; il Papa spese grandi cifre di danaro per aumentare la bellezza della villa, che è uno degli esempi più delicati dell’architettura manierista.
Dal punto di vista compositivo si ha:
• Organizzazione simmetrica secondo l’asse principale, e articolazione in più zone attorno a tre giardini su livelli diversi
• Combinazione di superfici contrastanti: la facciata principale è planare con perimetro rettilineo, mentre quello posteriore è concavo a semicerchio.

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Il fronte urbano, del Vignola, è costituito da una severa facciata a due piani, ogni piano ha la stessa altezza. Ha al centro il triplice ritmo di un arco trionfale pienamente dettagliato, fiancheggiato da ali simmetriche di solo due finestre. La facciata è chiusa ad ogni estremità da un pilastro di ordine dorico. Questa facciata della villa Giulia costituisce l’idea guida della villa georgiana del XVIII secolo a sette finestre, riprodotta tanto spesso nelle abitazioni della Virginia.
La parte posteriore della costruzione mostra la grande loggia di Ammanati che guarda sopra il primo dei tre cortili. La loggia dà accesso al giardino ed il passaggio al cortile centrale è ottenuto da due fughe di scale in marmo che conducono al cuore del complesso della villa – un Ninfeo (che si trova a una quota inferiore), per pranzare al fresco sfuggendo alla calura estiva. Questa composizione, articolata su tre livelli di logge coperte e decorate con statue di marmo e balaustre, è costruita intorno ad una fontana centrale: in questo ambiente fresco, riparato dal sole ardente, si dovevano tenere feste che duravano l’intero giorno. La fontana centrale è un’opera d’arte meravigliosa in sé; progettata e scolpita da Vasari e da Ammannati rappresenta le divinità dei fiumi e le cariatidi.
Il recinto del primo giardino diventa un tutt’uno con il secondo edificio, che porta al cortile centrale, dando continuità compositiva.
Il terzo giardino, situato alla fine dell’asse principale, è all’italiana.
Il Casino della Vigna, come a volte è conosciuto, ed i suoi giardini erano situati al centro di vigne ben tenute. A quel tempo, prima che diventasse di moda lo stile inglese, la vista più piacevole immaginabile da un giardino era quella di un’agricoltura ordinata, dove la mano dell’uomo aveva domato il disordine capriccioso ed il pericolo rappresentato dalla natura. Gli invitati papali sarebbero saliti su barche alle porte del Vaticano e trasportati sul Tevere al grande approdo riservato, per godere i piaceri e le magnificenze della villa, per passeggiare nei giardini e per mangiare i lussuosi pasti nel ninfeo.

Casina di Pio IV

Altro esempio autorevole fu la Casina di Pio IV, costruita nel verde dei giardini vaticani dal napoletano Pirro Ligorio, allievo di Baldassarre Peruzzi. È sede della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

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STRUTTURA

L’architetto dovette tener conto dei molteplici caratteri della palazzina, che avrebbe dovuto conciliare gli aspetti bucolici del luogo al rigore consono al ruolo del pontefice. Il risultato fu un edificio di gusto manierista, estremamente decorato mediante statue moderne e antiche, sculture e pitture.
È formato da due edifici anteposti e distinti, il primo dei quali, rivolto ai palazzi Vaticani, è una sorta di ninfeo fronteggiato da una fontana, ornato da mosaici e nicchie con statue e rilievi antichi, oltre che da una loggia dorica aperta nella parte superiore. L’edificio maggiore, raccordato all’altro da una piazzetta ovale, murata e decorata da una fontana, mosaici pavimentali e due padiglioncini laterali coi portali d’ingresso, presenta una facciata ornata da un ricco apparato in stucco, cornici, festoni vegetali, nicchie con figure, che imita con precisione motivi decorativi tra il moderno e l’antico, secondo un gusto ripreso qualche tempo dopo dalla facciata interna di villa Medici. All’interno sono conservati affreschi di Federico Barocci, Santi di Tito e Federico Zuccari.

Il Palazzo di Caprarola

La famiglia papale dei Farnese, che già si era assicurata per il palazzo romano la collaborazione di Antonio da Sangallo e Michelangelo, non si sottrasse alla moda del le ville, e ne fece realizzare forse la più imponente versione: il Palazzo di Caprarola presso Viterbo.

L’Esterno

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Dall’alto si può ammirare la sua forma a pentagono con cortile circolare al centro. Questo cortile era in pendenza verso il centro, dove all’interno di esso era situata una “bocca della verità” che raccoglieva tutta l’acqua piovana che veniva usata per ogni bene di uso quotidiano (lavarsi, cucinare ecc..) Il palazzo viene inquadrato dalla strada che si allarga nella piazza antistante la facciata principale (dove è posto l’ingresso). Originariamente tutt’intorno era circondato da un fossato.

L’interno

I vari ambienti sono suddivisi secondo uno schema ben preciso e moderno:
• la zona estiva a ovest situata dove non batteva il sole
• la zona invernale a est situata dove batteva il sole
Le zone della servitù erano separate dalla zona del cardinale e vennero addirittura ricavate dallo spessore dei muri. Annesse alle stanze della servitù erano le cucine ed i magazzini. In questa zona era alloggiata la scala del cartoccio, una rampa di forma elicoidale che permetteva di far scendere, mediante una guida scolpita nel corrimano, un cartoccio di carta, con all’interno sabbia o sassolini, in modo da far giungere velocemente ai piani inferiori messaggi riservati.
Il piano rialzato viene chiamato Piano dei Prelati. Vi si accede sia dalla scalinata esterna che dall’interna. In questo piano vi sono le stanze affrescate da Taddeo Zuccari, le stanze delle stagioni del Vignola e la stanza delle guardie.
Il cortile, raggiungibile da questi ambienti, è di forma circolare e realizzato dallo stesso Vignola. Esso è composto da due porticati sovrapposti, con volte affrescate da Antonio Tempesta.
Il Vignola fu pure autore degli affreschi della scala interna (la Scala Regia).

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Questa ruota intorno a 30 colonne di peperino, attraverso le quali, secondo la leggenda, il cardinale vi passava a cavallo per raggiungere il piano nobile.
Sopra il piano rialzato si trova il piano nobile, la cui zona estiva fu affrescata da Taddeo Zuccari, mentre l’invernale fu dipinta da Jacopo Zanguidi (detto il Bertoja), da Raffaellino da Reggio e Giovanni de Vecchi. Qui sono collocate la camera da letto del cardinale, detta Camera dell’Aurora, e la camera delle celebrità, detta Stanza dei Fasti Farnesiani, con gli affreschi che riassumono la vita dei Farnese. Oltre è posta l’Anticamera del Concilio, che prende il nome dall’affresco del Concilio di Trento; nella stessa stanza vi è un affresco di Paolo III. Successivamente si apre la Sala di Ercole, che prende anch’essa il nome dagli affreschi presenti.Una delle stanze più rappresentative del palazzo è la Stanza delle Geografiche o del Mappamondo, la quale prende il nome dagli affreschi di Giovanni Antonio da Varese. Il quarto e quinto piano erano assegnati agli staffieri ed ai cavalieri.